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DocFaber : la dieta online personalizzata

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Da oggi la Rubrica Pausa Sana da il benvenuto alla tecnologia ed ai nutrizionisti di docFaber!

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Vantaggi del welfare aziendale per aziende e dipendenti

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I vantaggi del welfare aziendale

Il welfare aziendale comprende tutte le iniziative messe in campo da un’azienda per favorire il benessere dei propri dipendenti e comporta numerosi vantaggi anche per l’impresa stessa. Ecco quali sono tutti i vantaggi del welfare aziendale.

 

Grazie al welfare aziendale, i dipendenti delle aziende che ne applicano i principi godono di un maggiore benessere e di un migliore work-life balance. Tutto ciò garantisce alle imprese una maggiore produttività ed efficienza. Questi sono solo alcuni dei vantaggi del welfare aziendale per aziende e dipendenti. Vediamo quali sono gli altri.

 

Welfare aziendale: cosa ci guadagna l’azienda?

Negli ultimi anni c’è stata una crescente attenzione nei confronti del welfare aziendale da parte delle PMI, che si sono rese conto dei numerosi vantaggi dati dall’introduzione di un piano di welfare aziendale ben strutturato e bilanciato.

In particolare, sono 3 i vantaggi principali che derivano dall’offrire ai lavoratori incentivi che migliorino la loro vita lavorativa e personale:

  • miglioramento del clima aziendale;
  • aumento della soddisfazione e del benessere dei dipendenti;
  • vantaggi fiscali.

Perché abbiamo indicato questi tre come i principali vantaggi di un buon piano di welfare? Perché il miglioramento del clima aziendale, che deriva dall’offrire ai collaboratori un ambiente di lavoro più moderno e flessibile e dal garantire il loro benessere tramite l’erogazione di beni e servizi dedicati anche alle loro famiglie, è ciò che genera tutta una serie di altri vantaggi che non sono di certo trascurabili.

Uno dei maggiori è di sicuro l’incremento di produttività e competitività, dovuto al fatto che i dipendenti più felici e soddisfatti sono anche più produttivi.

Non solo. Quando un lavoratore è soddisfatto del proprio lavoro, non lo lascerà per andare a cercare nuove opportunità e si sentirà più fedele nei confronti dell’azienda. Ciò significa che le aziende con un buon piano di welfare aziendale riscontrano una riduzione del turnover, e si trovano quindi a risparmiare sui costi e sulla formazione per l’inserimento dei nuovi assunti.

Una maggiore fidelizzazione dei lavoratori, inoltre, riduce spontaneamente il fenomeno dell’assenteismo.

Un altro dei vantaggi della corretta applicazione delle misure di welfare aziendale è il ritorno d’immagine. Un’impresa che appare virtuosa ai propri dipendenti, si mostra tale anche ai propri concorrenti e ai vari soggetti con cui si trova a relazionarsi, compresi i possibili, nuovi, dipendenti.

Sono molte, infatti, le persone desiderose di lavorare per un’azienda che valorizza i propri collaboratori, riconoscendone i meriti e avendo a cuore il loro benessere.

Veniamo ai vantaggi fiscali. Un vantaggio non trascurabile dell’applicazione del welfare aziendale è dato anche dalle numerose agevolazioni fiscali riservate alle imprese che mettono in atto dei piani di welfare. Tali agevolazioni consistono nella detassazione parziale o totale delle somme investite. Si tratta, forse, del beneficio maggiore per un’azienda, soprattutto a fronte dei numerosi riscontri ottenuti.

Attenzione, però. Solo le aziende che offrono benefit di vario tipo ai propri dipendenti per ottemperare alle disposizioni contenute nei CCNL di primo e secondo livello, o per tener fede agli accordi sindacali, sono esentate dal pagamento di tasse e contributi sugli importi spesi per l’erogazione di tali benefit.

 

Quali sono i vantaggi per il dipendente?

Se l’applicazione delle misure di welfare aziendale è vantaggiosa per le aziende, non lo è da meno per i dipendenti, che ottengono tutta una serie di benefici dalla fruizione delle agevolazioni messe a loro disposizione.

Grazie alle misure a sostegno del reddito offerte nell’ambito dell’applicazione delle politiche di welfare aziendale, i dipendenti non ricevono somme in busta paga che vengono in parte erose dalla tassazione, ma tutta una serie di beni e servizi destinati a loro stessi e ai familiari, la cui fruizione è in grado di migliorare la qualità della loro vita lavorativa e privata.

Tra i maggiori vantaggi del welfare aziendale per i dipendenti ci sono:

  • aumento del benessere personale, grazie alla fruizione di benefit come i servizi sostitutivi di mensa, o dalla possibilità di utilizzare la propria quota di welfare per acquistare abbonamenti in palestra, andare al cinema o al teatro o viaggiare;
  • aumento della capacità di conciliazione vita-lavoro, che il lavoratore può ottenere usufruendo dei servizi dedicati al benessere familiare o dello smart working;
  • maggior potere d’acquisto, ottenuto, ad esempio, grazie al rimborso delle spese di viaggio sostenute per recarsi al lavoro, oppure delle spese sostenute per l’acquisto di testi scolastici o per il pagamento delle rette delle scuole per l’infanzia;
  • riduzione del cuneo fiscale, grazie alla detassazione dei servizi di welfare.

 

Welfare aziendale: ci sono degli svantaggi?

Non dimentichiamo che il welfare aziendale offre soprattutto vantaggi sia alle aziende che ai loro dipendenti, ma possono esserci talvolta anche dei piccoli svantaggi.

Possibili svantaggi per le aziende

Possono derivare soprattutto dal fallimento delle misure di welfare, causate dalla creazione di un piano di welfare che non risponda davvero ai bisogni dei dipendenti. O dalla mancanza di una comunicazione chiara e adeguata su quali siano i benefit riservati ai dipendenti e le modalità con cui possono usufruirne.

Un altro svantaggio del welfare aziendale, per le imprese, è dato dalla minor detassazione (solo il 5 per mille degli importi investiti), nel caso in cui le misure siano attivate per decisione unilaterale della stessa, o siano erogate a un gruppo troppo ristretto di dipendenti.

Molte aziende che non hanno ancora attuato piani welfare, ritengono che offrire agevolazioni ai propri dipendenti sia dispendioso. Questo perché non tengono in conto i numerosi vantaggi, anche in termini di guadagno, che essi producono.

Possibili svantaggi per i dipendenti

Tra gli svantaggi per i lavoratori ci sono:

  • il divieto di convertire in denaro le misure di welfare aziendale erogate, specialmente se vengono offerte alternative poco appetibili;
  • la perdita della quota di contributi versata dall’azienda sull’importo erogato sotto forma di benefit. Perdita che, tuttavia, può essere compensata se si decide di usare come benefit la conversione totale o parziale della quota di welfare in una pensione complementare.

Quasi tutti gli svantaggi del welfare aziendale sono inferiori ai benefici che derivano dalla sua applicazione.

Inoltre, molti dei problemi che colpiscono aziende e dipendenti possono essere annullati dalla creazione di un solido piano di welfare. Per questo, per un’impresa può essere utile affidarsi a società che offrono il servizio di creazione e gestione dei piani di welfare aziendale, come Day Welfare, che aiuta i reparti di risorse umane a pianificare tutto fin nei minimi dettagli.

 

Tassazione del welfare aziendale

La tassazione del welfare aziendale è regolamentata da una serie di normative.

La più importante di tutte è sicuramente il TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi), che agli articoli 51 e 100 definisce le agevolazioni e gli obblighi fiscali concernenti il reddito da lavoro dipendente e il reddito delle imprese.

In particolare, l’articolo 51 del TUIR, determina quali siano le somme e i servizi che concorrono, in tutto o in parte, a formare il reddito da lavoro dipendente.

Vediamo quali sono i casi più frequenti di esenzione totale o parziale dei benefit dal reddito imponibile secondo la normativa:

SERVIZIO EROGATO REGIME FISCALE
Contributi per l’assistenza sanitaria integrativa Non concorrono a formare il reddito del dipendente fino ad un massimo di 3.615,20 euro annui (vanno ricomprese sia le somme versate dal datore di lavoro, sia le somme versate dal dipendente)
Premi versati per assicurazioni per rischi legati alla professione Non concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente
Contributi versati dall’azienda e dal lavoratore a fondi di previdenza complementare Non concorrono alla formazione del reddito fino a 5.164,57 euro annui.
Servizi di trasporto collettivo forniti per agevolare il raggiungimento del posto di lavoro Non concorrono alla formazione del reddito
Servizi, rimborsi e prestazioni erogati dal datore di lavoro per la fruizione, da parte dei familiari dei dipendenti, di servizi di educazione e istruzione, anche in età prescolare, compresi i servizi integrativi connessi. Non concorrono alla formazione del reddito
Erogazione di borse di studio per i componenti della famiglia dei lavoratori Non concorrono alla formazione del reddito
Erogazione di somme o rimborso delle spese sostenute per la frequenza di centri estivi o di doposcuola dei familiari dei lavoratori. Non concorrono alla formazione del reddito
Erogazione di somme o prestazioni per la fruizione di servizi di assistenza per parenti anziani o non autosufficienti Non concorrono alla formazione del reddito
Oneri di utilità sociali (check-up medico, abbonamenti a palestre, cinema o teatri, finanziamento di corsi di studio extra aziendali, servizi di baby-sitting) Non concorrono alla formazione del reddito
Voucher, buoni spesa, buoni carburante Non concorrono a formare il reddito se il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati ha un importo complessivo non superiore a 258,23 euro annui.

 

Beni e servizi di welfare aziendale erogati in sostituzione del premio di risultato Non concorrono alla formazione del reddito fino all’importo massimo di 3.000 euro annui

 

Per quanto riguarda le somme spese dall’azienda per finanziare le misure di welfare aziendale, secondo quanto stabilito dall’articolo 100 del TUIR, la deducibilità massima dei beni e i servizi erogati in seguito un’iniziativa unilaterale dell’impresa è del 5 per mille dell’importo totale.

Qualora le misure di welfare aziendale siano comprese nella contrattazione collettiva di primo e secondo livello o negli accordi stipulati dall’azienda con i sindacati, e quindi la loro erogazione risulti obbligatoria, le somme investite per finanziarle sono totalmente esenti da tassazione.

Inoltre, per avere accesso alla detassazione, le imprese devono offrire i servizi di welfare aziendale alla totalità dei dipendenti o a categorie omogenee di lavoratori.

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Sei consigli per migliorare il metabolismo e lo stato d’animo

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Quello che mangiamo influenza il nostro umore e metbolismo

Quello che mangiamo può influenzare il nostro stato d’animo e il nostro metabolismo. Scopri cosa mangiare per aumentare il tuo livello di energia. 

Possiamo migliorare il nostro umore e il nostro metabolismo inserendo alcune semplici abitudini alla nostra dieta. I benefici sono potenzialmente enormi: essere di buon umore ci aiuterà a seguire una dieta sana, ad essere più produttivi e ad aumentare la nostra autostima.

Il nostro metabolismo è in parte costituito dai processi che il corpo utilizza per digerire e processare il cibo. Avere un metabolismo efficiente ci aiuterà a sentirci al meglio e pieni di energie per affrontare in maniera propositiva le nostre giornate.

Ecco sei semplici consigli per ottimizzare la tua dieta, per migliorare l’umore e il metabolismo.

  1. Non saltare i pasti

Saltare un pasto può causare un forte calo di zuccheri nel sangue che porta irritabilità e letargia. Mantieni costanti i livelli di zucchero nel sangue, e quindi la tua energia, mangiando piccole quantità di cibo suddivise durante la giornata facendo i classici 3 pasti principali e 2 spuntini.

  1. Mantieni il corpo idratato

La disidratazione può farti sentire pigro e letargico. Assicurati di bere lungo tutto l’arco della giornata e non solo quando hai sete. Mediamente bisognerebbe bere 2 litri di acqua al giorno.

  1. Limitare i cibi scarsi di nutrienti

Limita l’assunzione di caffeina, di carboidrati raffinati, di alcolici, di sale e altri additivi alimentari. Uno qualunque di questi, soprattutto in grandi quantità, può ridurre l’efficienza metabolica. Mangiare grandi quantità di carboidrati semplici tende a darci una carica di energia immediata, ma poi causa un forte calo di zuccheri nel sangue con conseguente irritabilità e stanchezza. Il sale in eccesso può compromettere l’equilibrio dei fluidi aumentando il fabbisogno di acqua giornaliero, per non parlare dell’aumento dei rischi per la salute come la pressione alta.

  1. Segui una dieta bilanciata

Combina correttamente proteine, carboidrati e grassi per avere un apporto energetico equilibrato. In generale una dieta sana comprende un mix di cereali integrali, frutta e verdura e proteine ma ogni persona ha esigenze individuali diverse basate sull’età, sesso, livello di attività fisica, misure corporee e fattori di stress.

  1. Mangia i cibi giusti per migliorare l’umore

Anche se ci sono risultati contrastanti nelle ricerche sui cibi che migliorano l’umore, è un dato di fatto che gli alimenti ricchi dell’amminoacido triptofano aumentino i livelli di serotonina (l’ormone del buonumore) nel cervello, contribuendo a sentimenti di ottimismo e tranquillità. Tra gli alimenti ricchi di triptofano troviamo banane, avocado, albicocche, noci, semi di girasole e semi di zucca. Anche i grassi polinsaturi omega-3 aiutano a migliorare l’umore e a ridurre l’ansia e la depressione. I grassi omega-3 si trovano in abbondanza nei pesci grassi come il salmone e lo sgombro, nella frutta secca e nei semi oleosi.

  1. Scrivi un diario alimentare

Altri alimenti invece possono avere effetti negativi sul nostro umore e possono causare irritabilità o mal di testa. Se pensi che un determinato alimento possa peggiorare il tuo umore, inizia a tenere un diario alimentare. Registra tutti gli alimenti che mangi ogni giorno e come ti senti prima e dopo ogni pasto. Dopo due settimane rivedi le voci per valutare se ci sono alimenti che si allineano con stati d’animo specifici, siano essi buoni o cattivi.

Un ulteriore consiglio per migliorare l’umore e il metabolismo, oltre a seguire una dieta sana, è fare esercizio fisico regolare. Farai lavorare il corpo in modo più efficace e migliorerai l’umore e il metabolismo.

La parola chiave è equilibrio. Una varietà di cibi sani con la giusta dose di esercizio fisico ti aiuterà a mantenere alta l’energia, ad accelerare il metabolismo e a migliorare il tuo stato d’animo.

Puoi trovare l’articolo originale qui  scritto dal dott. Giuseppe Scopelliti Biologo Nutrizionista per maggiori informazioni o richiesta di contatti scrivi a info@day.it.

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L’auto aziendale ad uso promiscuo

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Auto aziendale ad uso promiscuo

Tra le agevolazioni concesse più spesso dalle imprese ai propri dipendenti nell’ambito dell’applicazione delle politiche di welfare aziendale c’è l’auto aziendale ad uso promiscuo. Ecco tutto quello che devi sapere su questo tipo di benefit.

 

La concessione dell’auto aziendale ad uso promiscuo ai lavoratori dipendenti e ai professionisti è considerata una remunerazione in natura, soggetta a tassazione agevolata. Scopri quali sono i requisiti perché l’auto aziendale sia considerata ad uso promiscuo e come funzionano l’utilizzo e la tassazione di questo tipo di benefit.

 

 

Cosa significa auto ad uso promiscuo?

Prima di vedere come funziona questo benefit, cerchiamo di capire cosa significa “auto ad uso promiscuo” e cosa la differenzia dall’auto ad uso aziendale e dall’auto ad uso esclusivamente privato.

Ognuna di queste tre modalità di fruizione dell’auto aziendale, infatti, comporta obblighi e agevolazioni diverse sia per il lavoratore, sia per il datore di lavoro.

Iniziamo dalla definizione che ci riguarda più da vicino: quella di auto ad uso promiscuo. Con questo termine si intende l’utilizzo dell’auto aziendale da parte del dipendente sia per esigenze lavorative, sia per esigenze personali, quindi anche al di fuori dell’orario lavorativo (ad esempio il sabato e la domenica o nei giorni di vacanza), senza che quest’ultimo debba sostenere i costi di acquisto o di gestione.

Quando l’auto è ad uso aziendale, invece, il dipendente può usarla solo ed esclusivamente in ambito lavorativo e non durante il tempo libero.

Quello dell’auto ad uso personale è un caso piuttosto raro, che prevede la fruizione a titolo esclusivamente privato di un’auto fornita dall’azienda al dipendente.

A seconda del caso, il benefit erogato dall’azienda comporta anche diverse modalità di tassazione.

 

Come funziona?

L’auto aziendale ad uso promiscuo è il caso più tipico, per quanto riguarda l’erogazione di questo tipo di  . Il suo funzionamento segue delle regole ben precise, contenute nel contratto individuale stipulato tra l’azienda e il dipendente che ne usufruisce.

Le aziende che intendono offrire l’uso dell’auto aziendale come benefit ai propri dipendenti stipulano un contratto di noleggio a lungo termine o di leasing con un concessionario per ottenere le autovetture da fornire ai lavoratori. In seguito, viene stipulato un altro contratto, tra l’azienda e il dipendente, per regolamentare i termini di utilizzo del mezzo.

Tale concessione può avvenire sia in sede di assunzione, sia quando il rapporto di lavoro è già in essere: in entrambi i casi, essa viene regolamentata dal contratto individuale stipulato tra il dipendente e il datore di lavoro.

Nel contratto di assegnazione si possono trovare, tra le altre, tutte, o alcune, di queste voci:

  • l’indicazione che l’auto è data in concessione al dipendente sia per lo svolgimento delle sue mansioni durante l’orario di lavoro, sia per uso personale;
  • se altre persone, oltre al dipendente, hanno diritto ad usare l’auto;
  • a quali obblighi deve sottostare l’utilizzatore dell’auto (ad esempio, il rispetto delle norme del Codice della Strada o l’obbligo di occuparsi della manutenzione o revisione del veicolo);
  • se il dipendente debba o meno versare una quota all’azienda per l’uso del veicolo.

 

La tassazione dell’auto ad uso promiscuo

L’auto ad uso promiscuo, essendo un fringe benefit, cioè una prestazione in natura concessa al lavoratore in aggiunta al compenso ordinario, è esclusa solo parzialmente dalla tassazione.

Per calcolare in maniera esatta la quota di benefit che andrà a comporre il reddito imponibile, che sarà quindi assoggettata sia all’IRPEF, sia all’imposizione contributiva, si usano come riferimento le tabelle ACI, che vengono aggiornate ogni anno, in concomitanza con l’emissione della nuova legge di bilancio.

Questo perché, per la tassazione di questa determinata tipologia di fringe benefit, si fa valere il valore convenzionale del bene (cioè un importo forfettario), e non quello definito normale. Nel caso specifico, il valore del bene assoggettato a tassazione è pari al 30% dell’importo corrispondente ad una percorrenza convenzionale di 15.000 km annui, calcolato sulla base del costo chilometrico indicato nelle tabelle.

Per eseguire il calcolo corretto della percentuale che verrà inserita in busta paga, il datore di lavoro dovrà ripartire l’importo previsto dalle tabelle ACI sul numero di giorni in cui al dipendente è concesso l’uso del veicolo.

Facciamo un esempio pratico. Al lavoratore viene concessa in uso promiscuo una Jeep Renegade 1300 T4 da 150 cavalli. Il costo chilometrico convenzionale di questa vettura, nelle tabelle ACI in vigore per il 2020, è di 0,5338 euro che, moltiplicato per 15.000, dà un totale di 8.007 euro. Di questi, il 30 %, cioè 2.402,01 euro, finiranno nella busta paga del lavoratore. Supponiamo che il dipendente abbia in uso l’auto per 25 giorni al mese: in busta paga, ogni mese, verrà indicato un importo di 200,16 euro, che sarà soggetto al pagamento di IRPEF e contributi.

In alcuni casi, al dipendente viene richiesto dal datore di lavoro il pagamento di un indennizzo per l’uso privato dell’auto fornita in dotazione dall’azienda: in questo caso, il costo dell’indennizzo viene sottratto dal valore convenzionale indicato in busta paga.

Se, ad esempio, al lavoratore venisse richiesto il pagamento di un indennizzo di 50 euro al mese, l’importo che figura in busta paga non sarebbe più di 200,16 euro, ma di 150,16 euro.

Dal mese di luglio 2020, la quota di valore convenzionale da attribuire al lavoratore in busta paga diminuisce al 25% se gli viene assegnata un’auto poco inquinante. Se, invece, il veicolo è considerato altamente inquinante, l’importo che viene indicato in busta paga può andare dal 30 al 50 per cento del valore convenzionale.

 

Chi può usufruire dell’auto ad uso promiscuo?

In teoria, possono usufruire dell’auto ad uso promiscuo sia il dipendente, sia i suoi familiari, purché i loro nomi siano inseriti nell’assicurazione stipulata dall’azienda. Non tutte le imprese, però, concedono questa possibilità al lavoratore.

Solitamente, nel contratto di assegnazione, è specificato se il suo uso è riservato solamente al lavoratore oppure se è esteso anche ai familiari.

 

Auto ad uso promiscuo: chi paga la benzina?

Il pagamento dei costi sostenuti per il carburante dell’auto aziendale ad uso promiscuo spetta in parte al dipendente, in parte al datore di lavoro.

Quando il lavoratore utilizza l’auto aziendale per lavoro, ha diritto ad ottenere un rimborso delle spese sostenute per l’acquisto del carburante. Rimborso che, tuttavia, non viene erogato in base alle ricevute che certificano la spesa sostenuta dal dipendente.

Anche in questo caso, vengono in soccorso di aziende e lavoratori le tabelle ACI, questa volta relative ai costi chilometrici. Queste tabelle sono quelle che i datori di lavoro utilizzano per calcolare la quota convenzionale che costituirà il rimborso del carburante che spetta al dipendente a cui è assegnata l’auto.

 

Auto ad uso promiscuo e buoni carburante

Anche nel caso in cui il lavoratore utilizzi l’auto per questioni personali, e quindi non abbia diritto ad ottenere un rimborso del carburante acquistato, può comunque ammortizzare il costo del carburante se, tra i fringe benefit che gli vengono concessi, ci sono anche i buoni carburante.

I dipendenti che ricevono dall’azienda i buoni carburante, infatti, possono utilizzarli anche per pagare il rifornimento dell’auto aziendale.

Chi utilizza i voucher Cadhoc di Day, inoltre ha la possibilità di convertirli in buoni carburante seguendo una semplice procedura online. Dopo averli convertiti, il lavoratore può utilizzare i suoi buoni per fare rifornimento nelle catene Q8 e IP.

 

Auto aziendale ad uso promiscuo e maternità

Cosa succede quando una lavoratrice che usufruisce dell’auto aziendale ad uso promiscuo va in maternità? Il benefit può essere revocato e la quota di valore convenzionale inserita in busta paga può venire sospesa?

Molte lavoratrici si pongono queste domande, spesso perché l’azienda per cui lavorano chiede loro la restituzione del mezzo durante il periodo di maternità.

I fringe benefit, essendo regolamentati da un contratto, non possono essere revocati in maniera unilaterale dall’azienda quindi la lavoratrice in maternità avrà comunque diritto all’uso dell’auto e sarà tenuta al pagamento delle tasse sulla quota di valore convenzionale computata in busta paga.

Nel caso in cui l’azienda chieda alla lavoratrice la restituzione del veicolo durante il periodo della maternità, essa sarà tenuta a corrisponderle un’indennità su base mensile.

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Differenze tra i cibi industriali e cibi nutrienti

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differenze tra i cibi industriali e il cibo nutriente

Cos’è che realmente rende poco sani gli alimenti lavorati?

In un recente articolo sull’obesità infantile sono stati evidenziati 11 differenze sostanziali tra gli alimenti freschi e quelli industriali lavorati.

Inoltre sono state individuate quattro macro aree nelle quali i cibi industriali creano danni alla salute: portano ad un aumento del consumo di carboidrati raffinati, aumentano il rischio di obesità e diabete di tipo 2 danneggiano l’ambiente e, danneggiando la nostra salute, portano ad una maggiore spesa sanitaria.

Gli alimenti trasformati sono definiti in base ai processi industriali necessari per ottenere il prodotto finale. I cibi industriali, di solito, soddisfano sette criteri: Il cibo è prodotto in serie, è coerente da lotto a lotto, è coerente da paese a paese, utilizza ingredienti specializzati, è costituito da macronutrienti predefiniti e predosati, resta in emulsione (il che significa che le parti grasse e le parti acquose rimangono mescolate insieme invece che separarsi come avverrebbe naturalmente) e ha lunghi tempi di conservazione.

Ma definire gli alimenti raffinati solo da queste proprietà non identifica le grandi differenze nutrizionali tra i prodotti alimentari industriali e quelli freschi.
Vediamo adesso nello specifico le 11 differenze principali dei cibi industriali rispetto a quelli preparati da alimenti freschi.

1) Non contengono fibra a sufficienza

Paragonati ai cibi freschi, quelli industriali hanno molte meno fibre. Le fibre sono importanti per la nostra salute perché giocano un ruolo chiave nell’assorbimento dei nutrienti, nel mantenere la glicemia sotto controllo, riducono il colesterolo e aiutano la motilità

2) Non hanno sufficienti acidi grassi omega-3

Gli acidi grassi omega-3 si trovano principalmente nel pesce e hanno tante proprietà benefiche per il nostro organismo.

3) Hanno troppi acidi grassi omega-6

Se è vero che il cibo industriale ha pochi omega-3, è anche vero che ha troppi omega-6. Avere il giusto rapporto di acidi grassi omega-6 e omega-3 è importante per il benessere del nostro organismo. Un eccesso di acidi grassi omega-6 rispetto agli omega-3 può causare uno stato infiammatorio e stress ossidativo.

4) Non hanno micronutrienti sufficienti

Gli alimenti processati hanno meno vitamine e minerali della controparte fresca, questa perdita è dovuta ai processi industriali di preparazione che impoveriscono gli alimenti dei loro nutrienti.

5) Sono ricchi di grassi Trans

I grassi Trans sono molto pericolosi per la nostra salute (non vengono usati come energia e si accumulano nelle arterie andandole ad ostruire), tanto che è stata varata una legge che ne vieta l’utilizzo a partire dal 2018. Però ad oggi sono ancora tanti gli alimenti industriali ricchi di grassi trans.

6) Contengono troppi aminoacidi ramificati

Gli aminoacidi ramificati sono indispensabili per l’organismo e sono comunemente presi come integratore dagli sportivi, ma un loro eccesso porta ad accumuli di grasso indesiderato.

7) Contengono troppi emulsionanti

Gli emulsionanti sono sostanze chimiche usate per evitare che parti grasse e parti acquose si separino. I cibi industriali ne sono ricchi e, dato che funzionano anche come detergenti, un loro eccesso può portare a disturbi intestinali.

8) Contengono troppi nitrati

I nitrati si trovano prevalentemente nei salumi e negli insaccati e vengono trasformati dal nostro organismo in nitrosourea che è una molecola cancerogena.

9) Sono troppo salati

Gli alimenti lavorati contengono grosse quantità di sale. Un eccesso di sale può portare ad ipertensione e malattie cardiache.

10) Sono una fonte di etanolo

Non tutti i cibi industriali contengono etanolo ma quelli che lo contengono ne hanno in genere troppo. Un eccesso di etanolo è collegato a stress ossidativo, diabete e malattie epatiche.

11) Contengono troppo fruttosio

Un eccesso di fruttosio porta a sintomi simili a quelli dell’eccesso di etanolo, tanto da dargli il nome di “alcol dei bambini”.

Puoi trovare l’articolo originale qui scritto dal dott. Giuseppe Scopelliti Biologo Nutrizionista. Per maggiori informazioni o richiesta di contatti scrivi a info@day.it

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Come avviene la tassazione dei buoni pasto in busta paga?

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La tassazione dei buoni pasto

I buoni pasto fanno parte dei cosiddetti fringe benefit: beni e servizi aggiuntivi erogati dalle aziende ai propri dipendenti per migliorare la conciliazione vita-lavoro, assoggettati a una tassazione di favore. Ecco come vengono tassati in busta paga i buoni pasto cartacei e quelli elettronici.

 

I buoni pasto sono dei voucher erogati ai lavoratori dipendenti come servizio sostitutivo di mensa e possono essere utilizzati per acquistare pasti già pronti e prodotti alimentari. I lavoratori che li ricevono sono esentati dal pagamento delle tasse solo fino a determinate soglie stabilite dalla legge. Ecco un’utile guida sulla tassazione dei buoni pasto in busta paga.

 

Perché i buoni pasto sono soggetti a tassazione?

Esistono diversi tipi di benefit che le aziende possono erogare ai propri dipendenti: i flexible benefits, che sono totalmente esenti dall’imposizione fiscale e contributiva (perché considerati complementari alla retribuzione ordinaria) e i fringe benefits, che, invece, sono soggetti a tassazione parziale perché considerati aggiuntivi rispetto alla normale retribuzione.

I buoni pasto fanno parte dei cosiddetti fringe benefits: beni e servizi considerati come retribuzioni aggiuntive, e quindi esenti dalla tassazione solo se il loro valore non supera le soglie indicate dalla legge. Se un’azienda eroga ai propri dipendenti dei buoni pasto il cui valore è superiore ai limiti stabiliti dalla legge, la differenza verrà inserita in busta paga e il lavoratore dovrà pagarci sopra tasse e contributi.

Inoltre, sia i flexible benefits che i fringe benefits hanno diritto ad essere tassati in maniera agevolata solo se vengono erogati a tutti i dipendenti, o a categorie omogenee di lavoratori.

 

C’è differenza tra la tassazione dei buoni pasto cartacei e quelli elettronici?

Oggi, le aziende che decidono di erogare ai propri dipendenti un servizio sostitutivo di mensa hanno la possibilità di scegliere se versare in busta paga un’indennità sostitutiva di mensa (indennità che, a parte alcuni rari casi, è totalmente soggetta a tassazione), oppure se offrire loro i buoni pasto.

I buoni pasto sono ticket in forma cartacea o elettronica, di importo variabile, che i lavoratori possono usare per acquistare pasti già pronti, ma anche prodotti alimentari di vario genere.

Al dipendente viene erogato un buono pasto per ciascuna giornata lavorativa. Se si tratta di buoni cartacei, a inizio mese gli viene consegnato un blocchetto contenente il numero di buoni corrispondente alle giornate lavorate nel mese precedente. Se si tratta di buoni elettronici, la card dei buoni pasto viene ricaricata con la cifra corrispondente.

Se il valore di ogni singolo buono pasto supera la soglia stabilita dalla legge, la differenza va inserita in busta paga.

Quindi, per rispondere alla domanda che dà il titolo a questo paragrafo: la tassazione dei buoni pasto è uguale sia per i buoni cartacei, sia per quelli elettronici. Se il loro valore supera le soglie fissate dalla normativa, la quota che eccede viene tassata. Ciò che cambia sono le soglie di esenzione dalla tassazione, più vantaggiose per i buoni elettronici.

Fino al 2019, tale importo era di 5,29 euro per i buoni cartacei, e di 7 euro per i buoni elettronici. Dal 2020, con l’entrata in vigore della nuova Legge di Bilancio, queste soglie sono state modificate.

I buoni pasto cartacei, adesso, sono esenti da tassazione fino al limite di 4 euro a buono, mentre quelli elettronici sono esenti fino al limite di 8 euro a buono. Cosa che rende automaticamente più vantaggiosa l’erogazione dei buoni elettronici rispetto ai cartacei.

Vediamo un esempio concreto della tassazione in busta paga dei buoni pasto cartacei e di quelli elettronici, utilizzando un’aliquota IRPEF convenzionale al 27% (senza tenere conto di eventuali detrazioni da lavoro dipendente o per carichi di famiglia).

Poniamo il caso che a un dipendente, nel mese di maggio, vengano erogati 20 buoni pasto di importo giornaliero pari a €8,50, per un valore di €170,00 complessivi.

Se i buoni pasto fossero cartacei, andrebbe inserita in busta paga la somma di €90 che è ottenuta moltiplicando la differenza tra la soglia di esenzione e l’effettivo valore del buono pasto. Se, invece, i buoni pasto erogati fossero in formato elettronico, in busta paga andrebbe inserito un importo di €10.

Di seguito la tabella con il calcolo degli importi da inserire in busta paga e delle quote INPS e IRPEF da versare, al fine di comprendere meglio la differenza di tassazione tra buoni cartacei e buoni elettronici.

  BUONI PASTO CARTACEI BUONI PASTO ELETTRONICI
VALORE BUONI PASTO (€8,50 x 20) € 170,00 €170,00
QUOTA DA INSERIRE IN BUSTA PAGA (€4,50 X 20) €90 (€0,5 x 20) €10
INPS DA VERSARE (ALIQUOTA 9,19%) €8,27 €0,91
IRPEF DA VERSARE (ALIQUOTA CONVENZIONALE AL 27%) €24,30 €2,7

 

Perché ci sono più vantaggi fiscali se si usano i buoni pasto elettronici?

La recente introduzione della soglia di esenzione più alta per i buoni pasto elettronici li ha resi uno strumento più appetibile per aziende e dipendenti. Ma perché è stata operata questa scelta, da parte del legislatore?

La motivazione principale è che, aumentando la soglia di esenzione dei buoni pasto elettronici fino a 8 euro, si spera di incentivarne l’uso e favorire un progressivo abbandono del mezzo di pagamento cartaceo. Oltre ad essere più pratici da usare rispetto ai cartacei, infatti, i buoni pasto elettronici sono più facilmente tracciabili ed è più difficile che ne venga fatto un uso scorretto sia da parte degli utilizzatori, sia da parte degli esercenti.

 

Tassazione dei buoni pasto: i vantaggi rispetto all’erogazione dell’indennità in busta paga

Tra i servizi sostitutivi di mensa che l’azienda può erogare ai propri dipendenti non ci sono solo i buoni pasto, ma anche l’indennità sostitutiva di mensa: un importo che viene versato direttamente nella busta paga del lavoratore, come forma di indennizzo per l’assenza di una mensa aziendale dove poter consumare i pasti durante l’orario di lavoro.

Questo tipo di indennità non rientra nella platea dei fringe benefit che il datore di lavoro può erogare ai propri dipendenti, pertanto non è soggetta a tassazione agevolata, ma viene tassata per il suo intero importo.

Gli unici casi in cui questo tipo di agevolazione risulta esente da tassazione fino alla soglia (questa rimasta invariata) di 5,29 euro, sono rappresentati dal versamento dell’indennità ai lavoratori che operano nei cantieri edili, in altre strutture a carattere temporaneo o in unità produttive situate in zone dove siano assenti i servizi di ristorazione.

Sotto il profilo della tassazione, perciò, i buoni pasto, in particolare quelli elettronici, risultano più convenienti per i lavoratori, rispetto all’indennità sostitutiva di mensa, perché la tassazione agevolata riduce l’erosione del loro potere d’acquisto.

 

La tassazione dei buoni pasto per le aziende

L’azienda che decida di erogare i buoni pasto ai propri dipendenti ottiene numerosi vantaggi fiscali, poiché la loro tassazione prevede numerose agevolazioni.

In particolare, il costo dei buoni pasto è deducibile al 100%. Ciò significa che le imprese che decidono di riconoscerli ai propri collaboratori possono recuperare il costo sostenuto per erogarli in maniera completa.

I buoni pasto elettronici, inoltre, sono soggetti ad un’aliquota IVA agevolata, pari al 4%, anch’essa totalmente deducibile.

Questo vale, però, solo per i buoni pasto elettronici. L’IVA versata dalle aziende per i buoni cartacei, che sono soggetti ad un’aliquota del 10%, non è deducibile in alcun modo.

 

La normativa che regola la tassazione dei buoni pasto

La normativa di riferimento che regola la tassazione dei buoni pasto è costituita da diverse norme. Le più importanti sono:

  • la circolare numero 26 E del 2010
  • l’articolo 51 dei TUIR
  • il decreto legislativo n°314 del 1997

La circolare numero 26 E del 2010 stabilisce che i buoni pasto siano equiparabili a compensi in denaro e non in natura, pertanto non è possibile convertire il loro valore in denaro.

L’articolo 51 dei TUIR intitolato “Determinazione dei redditi da lavoro dipendente”, aggiornato alla Legge di Bilancio 2020, che si esprime sia sulle soglie di esenzione, sia sulla cumulabilità dei buoni.

Secondo quanto stabilito al comma 2c, non concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente le somministrazioni di vitto da parte del datore di lavoro, nonché quelle in mense organizzate direttamente dal datore di lavoro o date in gestione a terzi. Lo stesso articolo, sempre al comma 2c, stabilisce che non concorrono a formare il reddito imponibile le prestazioni sostitutive delle somministrazioni di vitto fino all’importo complessivo giornaliero di euro 4, aumentato a euro 8 nel caso in cui esse siano rese in forma elettronica.

Al comma 3 bis viene poi specificato che l’erogazione di beni, prestazioni opere e servizi da parte del datore di lavoro può avvenire attraverso l’erogazione di documenti di legittimazione, in formato cartaceo o elettronico, riportanti un valore nominale.

Questa è la normativa che riguarda l’imposizione fiscale sui redditi. I buoni pasto, però, sono soggetti anche a imposizione contributiva.

Il Decreto Legislativo n°314 del 1997, che ha modificato il TUIR, il Testo Unico sulle Imposte sui Redditi, proprio nella parte riguardante la determinazione dei redditi da lavoro dipendente, ha previsto l’allineamento della base imponibile fiscale con quella previdenziale.

Ciò vuol dire che i buoni pasto sono esenti dal versamento dei contributi fino alle soglie di 4 e 8 euro stabilite dalla normativa.

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Benefit aziendali: tutto quello che c’è da sapere

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Benefit aziendali

I benefit aziendali permettono di migliorare la qualità della vita dei propri dipendenti. Ecco tutto quello che devi sapere su questo tipo di agevolazioni.

 

I benefit aziendali sono beni e servizi compresi nei piani di welfare aziendale che le aziende offrono ai dipendenti per favorire la conciliazione vita-lavoro. Scopri cosa sono e come funzionano.

 

Cosa sono i benefit aziendali?

I dipendenti sono la risorsa principale di un’azienda. Sono sempre di più le aziende che lo riconoscono e che si impegnano per rendere più facile e serena la vita dei propri collaboratori.

Un lavoratore che si sente considerato e valorizzato, infatti, è più felice, produttivo e fedele all’azienda. L’azienda, in conseguenza di ciò, otterrà diversi vantaggi, come l’aumento della propria produttività, della competitività e dell’efficienza.

Secondo numerosi sondaggi effettuati tra i lavoratori del settore privato, molti di loro preferiscono ricevere benefit aziendali piuttosto che aumenti di denaro in busta paga.

I benefit aziendali sono quell’insieme di beni, servizi e agevolazioni di vario tipo che il datore di lavoro mette a disposizione dei propri dipendenti per migliorare la qualità della vita dei lavoratori e favorire la conciliazione vita-lavoro.

Tali benefit rappresentano a tutti gli effetti un compenso di natura non monetaria che viene erogato dall’azienda al dipendente e rientrano a pieno titolo nelle misure di welfare aziendale. Questo perché è proprio attraverso l’erogazione di questi bonus che si esplicita una parte consistente di molti piani di welfare.

 

Differenza tra fringe benefits e flexible benefits

I benefit aziendali si dividono in due categorie:

  • i fringe benefits;
  • i flexible benefits.

È importante conoscere la distinzione tra fringe benefits e flexible benefits perché la loro natura rende differente il tipo di trattamento economico a cui sono sottoposti.

I fringe benefits sono compensi in natura erogati dalle aziende ai propri dipendenti e vengono considerati come una parte di retribuzione aggiuntiva rispetto a quella ordinaria, pertanto sono soggetti a tassazione agevolata solo in parte.

I flexible benefits, invece, sono considerati complementari alla retribuzione ordinaria e, per questo, sono esonerati totalmente dal pagamento di contributi e imposte sul reddito da parte del lavoratore.

Quali sono i benefit aziendali?

I benefit aziendali sono moltissimi e possono riguardare sia la sfera lavorativa, sia la sfera privata del lavoratore.

I più comuni benefit aziendali che vengono erogati per facilitare al dipendente la vita lavorativa sono:

  • lo smart working;
  • i permessi retribuiti;
  • i congedi parentali per i neogenitori;
  • l’auto aziendale;
  • il servizio di mensa o i buoni pasto;
  • l’organizzazione di servizi di trasporto o di offerta di abbonamenti ai mezzi pubblici;
  • gli alloggi o appartamenti aziendali.

Tra di essi rientrano anche i servizi salva-tempo, come la lavanderia, la possibilità di farsi portare la spesa in azienda e il servizio di ritiro della posta.

Poi ci sono i benefit che offrono al lavoratore la possibilità di risparmiare, come:

  • la possibilità di crearsi una pensione integrativa attraverso il versamento del premio di risultato in fondi pensione;
  • l’accesso ad un’assicurazione sanitaria integrativa;
  • la possibilità di ottenere prestiti a tasso agevolato;
  • i buoni spesa.

Tra le agevolazioni più apprezzate dai lavoratori ci sono anche quelle che permettono di prendersi cura del proprio benessere, quali:

  • le visite mediche e checkup offerti dall’azienda;
  • il medico aziendale;
  • la palestra aziendale o convenzioni con palestre esterne all’impresa;
  • l’erogazione di corsi di formazione e specializzazione;
  • il rimborso delle spese sostenute per prendere parte a corsi di formazione esterni all’azienda.

Per garantire il benessere dei dipendenti i datori di lavoro tengono in conto non solo le loro esigenze personali, ma anche quelle che derivano dalla vita familiare. Per questo, molte aziende predispongono dei benefit destinati ai familiari dei lavoratori. Tra i più apprezzati ci sono:

  • il nido aziendale;
  • il rimborso delle spese sostenute per il pagamento delle rette scolastiche, anche delle scuole dell’infanzia, dei servizi di doposcuola, dei centri estivi;
  • il rimborso delle spese sostenute per l’acquisto di testi scolastici;
  • l’erogazione di borse di studio;
  • il servizio di baby-sitting;
  • l’erogazione di servizi di assistenza destinati ai familiari malati o non autosufficienti.

 

Come sono tassati i benefit aziendali?

Per capire come sono tassati i benefit aziendali bisogna fare riferimento alla normativa in materia di redditi da lavoro dipendente, che comprende sia un articolo del Codice civile, sia il TUIR, il testo unico sulle imposte sui redditi, che ogni anno viene aggiornato con le eventuali modifiche apportate dalla Legge di Bilancio.

Per comprendere come funziona la tassazione di alcuni benefit aziendali, bisogna anche fare una distinzione tra il valore normale del bene o servizio erogato, cioè il valore che ha al momento del suo acquisto, e il valore convenzionale, cioè un valore fittizio che viene determinato in base a criteri diversi, a seconda del benefit erogato, per determinare quale sia la parte dello stesso da inserire in busta paga.

 

La normativa sulla tassazione dei benefit

Iniziamo ad analizzare la normativa partendo dal Codice civile. L’articolo 2099 è interamente dedicato alla materia della retribuzione dei lavoratori. Nell’ultima parte dello stesso, viene esplicitato che il lavoratore può chiedere di essere retribuito in tutto o in parte con la partecipazione agli utili o ai prodotti, con una provvigione o con prestazioni in natura.

Ciò significa che i benefit erogati dal datore di lavoro ai dipendenti sono parte integrante del loro reddito e, quindi, potenzialmente soggetti a tassazione.

Per capire se, e in che misura, i benefit aziendali siano effettivamente soggetti all’imposizione fiscale e contributiva, bisogna rifarsi al TUIR che, all’articolo 51, stabilisce quali siano i redditi da lavoro dipendente, i casi e le modalità di esclusione.

Il comma 1 di tale articolo stabilisce che il reddito da lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori corrisposti dal datore di lavoro durante il periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali.

Al comma 2, invece, vengono indicati i casi in cui i beni e i servizi erogati dal datore di lavoro non concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente.

La normativa, inoltre, stabilisce che i benefit erogati in sostituzione del premio di risultato per volontà del dipendente, risultino esenti dalla tassazione fino alla soglia di 3.000 euro annui, che è anche quella fissata dalla legge per la tassazione agevolata del premio di risultato in denaro.

Nel TUIR è anche specificato che, perché le aziende e i lavoratori dipendenti abbiano diritto a godere della tassazione agevolata sui benefit, essi devono essere erogati alla totalità dei dipendenti o a categorie omogenee di lavoratori ed essere compresi nella contrattazione nazionale di primo o secondo livello o negli accordi stipulati dall’azienda con i sindacati.

 

Esempi di tassazione dei benefit aziendali

Vediamo qualche esempio di tassazione parziale dei benefit aziendali, in base a quanto stabilito dall’articolo 2 del TUIR:

  • i contributi previdenziali e assistenziali, compresi i contributi di assistenza sanitaria, erogati dal datore di lavoro in ottemperanza alle disposizioni di legge non concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente fino alla somma di 615,20 euro;
  • i buoni pasto non concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente fino alla soglia di 4 euro giornalieri per i cartacei e di 8 euro per i buoni elettronici;
  • i buoni spesa e i voucher welfare per un valore complessivo di 258,23 euro;
  • l’auto aziendale ad uso promiscuo viene tassata calcolando il 30% del suo valore convenzionale, che si ricava moltiplicando il costo chilometrico indicato dalle tabelle ACI per 15.000 km annui;
  • i prestiti aziendali concorrono a formare il reddito da lavoro dipendente solo sulla differenza esistente tra il tasso d’interesse applicato dalle società finanziarie al momento della sua erogazione e il tasso agevolato praticato dall’azienda.

I casi più frequenti di esclusione totale dei benefit aziendali dalla formazione del reddito imponibile sono, invece:

  • i servizi di trasporto collettivo e il rimborso delle spese sostenute per l’acquisto degli abbonamenti ai mezzi pubblici;
  • il rimborso delle spese sostenute per il pagamento delle rette di scuole dell’infanzia, servizi di doposcuola e centri estivi;
  • l’erogazione di borse di studio ai familiari;
  • i corsi di formazione erogati ai dipendenti;
  • l’erogazione di servizi di assistenza ai familiari anziani o non autosufficienti.

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Chi ha diritto al welfare aziendale?

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Welfare aziendale

Il welfare aziendale si rivolge ai lavoratori dipendenti del settore privato con misure volte a migliorarne la qualità della vita. Scopri nel dettaglio chi sono i destinatari di queste misure.

 

Lo strumento del welfare aziendale è impiegato da un numero sempre crescente di aziende per offrire un sostegno al reddito dei lavoratori e soddisfarne i bisogni, così da migliorare la conciliazione vita-lavoro. Per loro natura, le misure di welfare aziendale non possono essere erogate ad personam ma devono essere rivolte a una pluralità di soggetti.

In questo articolo ti spiegheremo chi ha diritto al welfare aziendale e perché.

Ogni azienda ha un piano di welfare aziendale?

Sono sempre di più le aziende italiane, anche tra le PMI, che riconoscono il valore del welfare aziendale e decidono di offrire ai propri dipendenti benefit e incentivi di vario tipo. Anche grazie all’introduzione del Jobs Act, che si è posto come obiettivo l’introduzione di sistemi di welfare aziendale sempre più dinamici e innovativi.

Spesso, sono gli stessi contratti collettivi di categoria che impongono alle imprese di mettere a disposizione dei propri dipendenti misure di welfare aziendale di vario tipo. Altre volte, sono le aziende che decidono di offrirle autonomamente ai lavoratori.

Tuttavia, ciò non significa che tutte queste imprese abbiano attuato un piano di welfare aziendale. Sono molti i casi in cui le misure vengono erogate senza essere comprese in uno schema ben definito.

Quando il welfare aziendale è obbligatorio

La sempre crescente attenzione nei confronti del welfare aziendale e dei suoi numerosi vantaggi per aziende e dipendenti ha fatto sì che sempre più categorie ne riconoscessero l’utilità.

Così, negli ultimi anni, è accaduto sempre più spesso che, in occasione del rinnovo dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro di diversi settori siano state incluse al loro interno una serie di iniziative per migliorare la qualità della vita dei dipendenti.

I primi a inserire l’obbligatorietà delle misure di welfare nel loro contratto collettivo sono stati i metalmeccanici, seguiti poi da altri settori, tra cui le telecomunicazioni, gli orafi e argentieri, gli operatori di telefonia, il turismo e la ristorazione.

Secondo quanto stabilito da questi contratti, il contributo non può essere monetizzato, cioè non può essere inserito nella busta paga del dipendente o convertito in denaro, ma deve essere finalizzato all’erogazione di beni e servizi che rientrino tra le misure di welfare aziendale.

I vantaggi di un piano di welfare aziendale

Perché le misure di welfare offerte ai dipendenti risultino davvero efficaci e riscuotano il consenso delle persone a cui sono rivolte, è bene che vengano inserite all’interno di un piano di welfare aziendale.

Nel piano di welfare, infatti, sono indicati:

  • le categorie di dipendenti che hanno diritto a beneficiare dei beni e dei servizi offerti;
  • quali beni e servizi siano i più adatti ad essere erogati ai lavoratori;
  • le modalità in cui deve avvenire l’erogazione delle misure di welfare;
  • i criteri di valutazione per capire se il piano stia o meno funzionando.

Il piano di welfare aziendale, perciò, offre alle imprese diversi benefici:

  • consente di individuare le misure di welfare già presenti in azienda e di valorizzarle;
  • permette di strutturare l’offerta di beni e servizi di welfare in modo da renderla davvero conveniente sia per l’impresa, sia per i lavoratori;
  • consente di monitorare la soddisfazione dei dipendenti nei confronti dei servizi di welfare erogati.

Le soluzioni di welfare Day per aziende e dipendenti

Le aziende che trovano difficile gestire il proprio piano di welfare possono affidarsi ad una società come Day, che ha sviluppato la piattaforma Day welfare.

Un servizio strutturato e completo, che permette di comporre le tipologie di benefit in base alle esigenze aziendali, così da garantire la soddisfazione dei dipendenti, stilare il regolamento che ne regola la fruizione e offrire un supporto continuo agli HR manager.

Chi beneficia del piano di welfare?

La fruizione dei piani di welfare aziendale è riservata ai lavoratori dipendenti delle aziende private, ma può essere estesa anche ai lavoratori autonomi e ai liberi professionisti che hanno un rapporto di lavoro continuativo con le stesse (ad esempio i professionisti che hanno un contratto co.co.co.).

I beni e servizi che ne fanno parte, per essere considerati parte del welfare aziendale e godere delle agevolazioni fiscali, non possono essere erogati ad personam ma devono essere rivolti alla generalità di dipendenti o a categorie omogenee di lavoratori, come indicato dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi all’articolo 51.
I beni e servizi erogati ad personam dall’azienda al dipendente, infatti, non godono di tassazione agevolata in quanto sono considerati parte integrante della retribuzione.

Con categorie omogenee di dipendenti non si intende solo la distinzione più classica tra dirigenti, operai o lavoratori che appartengono a determinati reparti. Tra le categorie omogenee di lavoratori che possono venire individuate dai datori di lavoro per l’erogazione del welfare aziendale, ci sono, ad esempio:

  • dipendenti con lo stesso livello contrattuale (V, IV, III, II livello e così via);
  • dipendenti che appartengono a una stessa sede aziendale, allo stesso ufficio o allo stesso settore;
  • dipendenti con figli;
  • dipendenti che appartengono a una determinata fascia di reddito;
  • dipendenti che decidono di convertire in welfare aziendale il proprio premio di risultato.

I lavoratori non sono gli unici beneficiari delle misure di welfare aziendale erogate dalle aziende. La legge prevede anche l’estensione della fruizione di determinate agevolazioni ai loro familiari.

Anche in questo caso, è il TUIR, all’articolo 12, a indicare chi sono i familiari che hanno diritto ad avere accesso ai beni e servizi offerti nell’ambito del piano di welfare. Si tratta di:

  • i coniugi non legalmente ed effettivamente separati;
  • i figli, compresi i figli naturali riconosciuti e i figli legalmente adottati o in affido;
  • i genitori, compresi i genitori adottanti;
  • i generi e le nuore;
  • il suocero e la suocera;
  • i fratelli e le sorelle.

 

I vantaggi per i lavoratori

Grazie al welfare aziendale i lavoratori hanno accesso a una serie di agevolazioni sia lavorative che personali, come ad esempio l’orario di lavoro flessibile o la possibilità di ottenere beni e servizi per sé e per i familiari, che favoriscono la conciliazione vita-lavoro, riducono il livello di stress e aumentano il benessere di chi le riceve.

I servizi di welfare, inoltre, possono essere totalmente o parzialmente detassati, sia dal punto di vista contributivo, sia dal punto di vista retributivo, cosa che aumenta il potere d’acquisto del beneficiario.

 

Il datore di lavoro può fare più piani di welfare differenti tra loro?

La risposta a questa domanda è no, per un’azienda non è possibile sviluppare più piani di welfare in contemporanea.

La natura stessa del piano di welfare non rende necessario, per le aziende, svilupparne più di uno in contemporanea, in quanto ogni piano può comprendere una pluralità di misure di welfare, anche molto diverse tra loro, e venire integrato all’occorrenza.

Dopo aver individuato le categorie di lavoratori alle quali destinare il welfare aziendale, il datore di lavoro decide quali siano le misure di welfare da inserire all’interno del piano. Tali misure possono riguardare la sfera lavorativa del lavoratore, oppure quella familiare. Ad esempio, possono riguardare la sanità, l’istruzione, la formazione personale del dipendente, la previdenza complementare, il tempo libero, i trasporti pubblici.

I beni e servizi compresi nei piani di welfare aziendale possono avere natura accessoria (fringe benefits) o complementare alla retribuzione (flexible benefits), come auto aziendale, voucher welfare, pensione complementare, assicurazione sanitaria, rimborso delle spese per l’istruzione dei figli (ad esempio la retta dell’asilo), assistenza per i parenti non autosufficienti, e così via.

Sarà poi il lavoratore a scegliere quale delle misure sia più adatta alle sue necessità e ai suoi scopi.

Non c’è, invece, nessuna legge che vieti alle aziende di strutturare un piano di welfare limitandolo a determinate categorie di beni e servizi. In alcuni casi, le aziende, specialmente quelle di grandi dimensioni, creano piattaforme complesse e articolate, che toccano tutte le aree del welfare. In altri, dopo aver studiato le necessità e le preferenze dei propri dipendenti, le imprese decidono di creare un piano di welfare che si concentri solo su un’area specifica.

Anche se non è possibile, e utile, per un’azienda, sviluppare più piani di welfare in contemporanea, può accadere che le aziende sviluppino più piani di welfare in successione. Per sua natura, infatti, il piano di welfare aziendale è uno strumento dinamico, che, per essere sempre attuale ed efficiente, ha bisogno di rinnovarsi periodicamente.

I piani di welfare possono avere una durata variabile, cioè avere scadenza annuale, biennale o triennale. Una volta giunti a scadenza, devono essere rinnovati. Se un’impresa, misurando l’efficacia del proprio piano di welfare, si rende conto che le misure adottate non hanno più la stessa efficacia di quando è stato sviluppato o sono diventate obsolete, può decidere di svilupparne uno nuovo, partendo dai dati già in suo possesso o raccogliendone di nuovi.

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Formazione dei dipendenti e welfare aziendale

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formazione e welfare aziendale

Un programma di formazione ben costruito è un valore aggiunto sia per il dipendente, sia per l’azienda. Ecco perché la formazione dei dipendenti può essere considerata parte integrante del welfare aziendale.

Tra le misure che le aziende inseriscono sempre più di frequente nel proprio piano di welfare aziendale c’è la formazione dei dipendenti. Questo perché essa costituisce un’importante opportunità di crescita non solo per i lavoratori, ma anche per le stesse imprese. Scopri tutto quello che c’è da sapere sulla formazione come misura di welfare aziendale e sulle persone che hanno diritto ad usufruirne.

 

 

Perché la formazione è considerata “welfare aziendale”?

Il welfare aziendale ha tra i suoi scopi principali la soddisfazione dei lavoratori, il miglioramento del clima interno e l’aumento del benessere generale.

Tra i benefit che più spesso vengono offerti ai dipendenti ci sono non solo i servizi di istruzione per i loro familiari, ma anche corsi di formazione destinati agli stessi lavoratori.

Che non sono solo i corsi di formazione obbligatoria che le imprese sono tenute a organizzare per adeguarsi alle normative. In questo caso si tratta anche di quei corsi definiti di formazione volontaria, talvolta regolamentati dai contratti nazionali di categoria (come il CCNL metalmeccanici), che permettono al lavoratore di accrescere il proprio know-how e intraprendere un percorso di crescita personale e professionale.

Insomma, uno strumento che può davvero risultare utile per un lavoratore perché può trasferire le competenze acquisite nel lavoro; e che, inoltre, gli offre un concreto accrescimento sia sotto il profilo culturale, sia nell’ambito personale, e incide favorevolmente sul clima interno e sulle performance dell’azienda.

La formazione dei collaboratori rappresenta infatti un valore aggiunto non solo per loro stessi, ma anche per i datori di lavoro. Per questo essa può essere considerata in tutto e per tutto una misura di welfare aziendale, assoggettata agli stessi obblighi e agevolazioni delle altre misure di welfare previste dalla legge.

 

Chi sono i lavoratori che possono usufruirne?

Potenzialmente, tutti i lavoratori di un’impresa possono usufruire della formazione aziendale e godere dei benefici che comporta.

Secondo il comma 2 dell’articolo 51 del TUIR, le misure di welfare aziendale devono essere erogate alla totalità dei dipendenti o a categorie omogenee di lavoratori, come dirigenti o operai appartenenti ad un intero settore.

Perciò, quando un’impresa decide di offrire ai propri dipendenti un percorso di formazione aziendale, può scegliere come destinatari tutti i suoi collaboratori oppure una categoria di lavoratori.

Nel secondo caso, i criteri di selezione delle categorie di lavoratori possono essere diversi, a seconda delle esigenze dell’azienda e dei collaboratori destinatari della formazione aziendale. Tali criteri possono comprendere:

  • dipendenti che hanno in comune la stessa sede di lavoro o lo stesso ufficio;
  • lavoratori con lo stesso livello salariale;
  • lavoratori con lo stesso livello contrattuale;
  • dipendenti che hanno uguali esigenze personali, sociali e organizzative.

 

Come possono beneficiarne i lavoratori?

I benefici per i lavoratori destinatari della formazione aziendale sono numerosi e vanno dall’accrescimento delle competenze all’aumento della felicità e del benessere personale.

In particolare, la partecipazione a un corso di formazione può aiutare le persone a migliorare le proprie hard skills, cioè quelle competenze tecniche connesse alla propria occupazione e al business della propria azienda; o le soft skills, cioè quelle competenze che non sono strettamente legate al business aziendale ma fanno parte del bagaglio di conoscenze del soggetto.

Acquisire nuove competenze e mantenersi aggiornati in merito alle novità del proprio settore, inoltre, rende i lavoratori più felici e motivati, migliora la loro capacità di problem solving e di comunicazione.

A beneficiare della formazione aziendale non sono solo i singoli lavoratori, ma anche coloro che fanno parte di un team. Grazie alle conoscenze acquisite, le persone che lavorano in squadra riescono a migliorare la comunicazione tra di loro, a gestire le proprie priorità, a smussare i conflitti e gestire i cambiamenti.

 

Quali sono i benefici della formazione aziendale per le imprese?

La formazione aziendale non comporta importanti benefici solo per i lavoratori a cui è destinata, ma anche per le aziende che la erogano.

Tra i principali vantaggi dell’offrire di un’attività formativa ai dipendenti ci sono:

  • raggiungimento degli obiettivi di crescita;
  • incremento della competitività. La formazione consente ai dipendenti, e di conseguenza all’azienda, di tenersi al passo con le ultime novità di settore e rimanere sempre competitiva;
  • innovazione;
  • miglioramento della scolarizzazione delle fasce di dipendenti che hanno maggiori rischi occupazionali;
  • aumento della produttività. Il miglioramento delle competenze dei lavoratori e delle loro performance contribuisce ad aumentare la produttività dell’azienda;
  • aumento dell’engagement e fidelizzazione dei dipendenti. Il fatto che un’impresa investa nella formazione dei propri collaboratori dimostra che considera le proprie risorse umane fondamentali per la sua crescita, le fa sentire più coinvolte e aumenta la loro fedeltà e il loro coinvolgimento nelle sue sorti;
  • diminuzione del turnover. I dipendenti che partecipano a dei corsi di formazione aziendale si sentono parte di un ambiente di lavoro più stimolante e non si sentono immobili e con poche prospettive. Ciò fa sì che evitino di abbandonare il proprio posto di lavoro per un impiego che ritengono più stimolante.

La formazione come benefit

La formazione del lavoratore può rappresentare un valore aggiunto per l’azienda anche quando questa avviene all’esterno e non è direttamente organizzata dalla stessa.

Per agevolare la scolarizzazione e il rafforzamento delle competenze dei dipendenti che scelgono di intraprendere un percorso di studio, le aziende possono mettere a loro disposizione dei voucher welfare, che possano spendere per l’acquisto di libri o per il pagamento di tasse e costi d’iscrizione.

In alcuni casi è proprio il CCNL di riferimento a stabilire che, nel caso in cui l’azienda non organizzi corsi che promuovano la crescita lavorativa e personale del dipendente, essa sia tenuta ad erogargli una somma in denaro che gli consenta di iscriversi a dei corsi sia di formazione professionale, sia relativi ad altre tematiche, organizzati da soggetti esterni.

Tale somma può essere convertita, appunto, in voucher welfare, che sono esenti da tassazione fino al valore di 258,23 euro.

Normativa in materia di formazione e welfare aziendale

La normativa in materia di formazione e welfare aziendale è costituita dal TUIR, il Testo Unico sulle Imposte sui Redditi: tale decreto, nell’esplicitare quali siano le somme e i servizi che costituiscono il reddito da lavoro dipendente, elenca anche in maniera esaustiva quali siano i beni e i servizi di welfare aziendale, in quanto sono proprio tali beni e servizi ad usufruire di una tassazione agevolata e ad essere quindi esclusi dalla formazione del reddito.

Normalmente, l’articolo di riferimento per stabilire quali siano le misure di welfare aziendale è l’articolo 51, intitolato “Determinazione del reddito da lavoro dipendente”, che al comma 2 esplicita quali siano le misure di welfare aziendale che non concorrono a formare il reddito da lavoro dipendente.

Scorrendo la lista, che comprende assicurazioni sanitarie, previdenza complementare, assistenza agli anziani e ai parenti non autosufficienti, spese per i mezzi di trasporto e servizi legati all’istruzione dei familiari, come rimborso di rette scolastiche e acquisto di libri, non si trova traccia della formazione dei dipendenti. Ciò potrebbe far pensare che, non essendo compresa in questo articolo, essa sia quindi esclusa dalle misure di welfare che beneficiano di agevolazioni fiscali.

In realtà, pur non essendo esplicitata nelle misure di welfare escluse dalla formazione del reddito previste dal secondo comma dell’articolo 51, la formazione dei dipendenti vi rientra a pieno titolo.

Sempre il comma 2, alla lettera f, stabilisce infatti che non concorre a formare il reddito l’uso di opere e servizi riconosciuti dal datore di lavoro volontariamente o in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale, purché offerti alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti e ai familiari, per le finalità di cui al comma 1 dell’articolo 100.

Il comma 1 dell’articolo 100 stabilisce quali siano le somme deducibili dalle tasse per le aziende e specifica che tra di esse rientrano le spese relative ad opere o servizi utilizzabili dalla generalità dei dipendenti o categorie di dipendenti volontariamente sostenute per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto.

Quindi, leggendo gli articoli del TUIR relativi alla formazione del reddito da lavoro dipendente e alla deducibilità delle spese sostenute dall’impresa, si può affermare che, secondo la normativa, la formazione offerta volontariamente ai dipendenti sia una misura di welfare aziendale, soggetta ad agevolazioni fiscali sia per il dipendente, sia per il datore di lavoro.

 

Le proposte di corsi di formazione Day

Day mette a disposizione delle aziende sue clienti e dei loro dipendenti una piattaforma per il welfare aziendale che comprende decine di servizi, che vanno dai voucher welfare allo shopping e comprendono anche dei servizi di formazione.

In particolare, grazie alla partnership con HRD, la società fondata da Roberto Re, fanno parte dei servizi di welfare offerti dalla piattaforma Day i seminari che si occupano di crescita personale, in particolare quelli incentrati sulla gestione delle emozioni, sulla leadership, sull’orientamento ai risultati.

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Dieci consigli per migliorare la digestione

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10 consigli per una digestione sana

Dopo una breve pausa estiva prosegue la nostra rubrica ‘Pausa Sana‘ con i consigli del dott. Giuseppe Scopelliti che oggi ci suggerisce come mantenere in salute il nostro apparato digerente.

Il nostro apparato digerente scompone i cibi che mangiamo nei nutrienti di cui il nostro corpo ha bisogno. Se trascuriamo la salute digestiva, il nostro corpo potrebbe rischiare problemi di salute.

La digestione è direttamente influenzata dagli alimenti che mangiamo e dallo stile di vita che abbiamo. Adottando misure per migliorare la salute digestiva, aiuteremo il sistema digestivo a funzionare nel modo più efficiente possibile, migliorando la salute in generale e il senso di benessere.

Ecco di seguito 10 consigli, proposti dal nostro nutrizionista esperto, per una migliore salute digestiva:

  1. Seguire una dieta ricca di fibre

Una dieta ricca di fibre, di cereali integrali, verdure, legumi e frutta può migliorare la salute dell’apparato digerente. Aiuta a mantenere il cibo in movimento attraverso il tratto digestivo rendendo meno probabile fenomeni di stitichezza. Una dieta ricca di fibre può anche aiutare a prevenire o trattare varie patologie digestive come la diverticolite, emorroidi e sindrome dell’intestino irritabile (IBS). Inoltre può aiutare a raggiungere o mantenere un peso sano.

  1. Assumere fibre insolubili e solubili

È importante consumare entrambi i tipi di fibra poiché aiutano il sistema digestivo in modi diversi. Le fibre insolubili non possono essere digerite dal corpo, le fibre solubili invece assorbono l’acqua e contribuiscono a migliorare il nostro smaltimento. Buone fonti di fibre insolubili includono crusca di grano, verdure e cereali integrali. Quelle solubili provengono dalla crusca d’avena, noci, semi e legumi.

  1. Limitare i cibi ad alto contenuto di grassi

In generale gli alimenti grassi tendono a rallentare il processo digestivo, rendendoti più incline alla stitichezza. Ma dal momento che è importante assumere giuste quantità di grassi nella dieta, i cibi ricchi di grasso andrebbero sempre associati a quelli ricchi di fibre.

  1. Scegliere le carni magre

Le proteine ​​sono una parte essenziale di una dieta salutare ma i tagli grassi della carne possono portare a una digestione lenta. Quando si mangia carne è bene selezionare tagli magri come il petto di pollo e il lombo di maiale.

  1. Aggiungere probiotici nella dieta

I probiotici sono lo stesso tipo di microorganismi positivi naturalmente presenti nel tratto digestivo. Aiutano a mantenere il corpo sano contrastando gli effetti di una cattiva alimentazione, antibiotici e stress. Inoltre i probiotici possono migliorare l’assorbimento dei nutrienti, possono aiutare a digerire il lattosio, rafforzare il sistema immunitario ed, eventualmente, anche aiutare a trattare la sindrome dell’intestino irritabile (IBS).

  1. Mangiare nei tempi previsti

Consumare i pasti e gli spuntini a intervalli regolari può aiutare a mantenere il sistema digestivo al top della forma. Sarebbe utili quindi fare colazione, pranzo, cena e spuntini ogni giorno alla stessa ora.

  1. Bere!

Bere molta acqua fa molto bene alla salute dell’apparato digerente.

  1. Modificare le cattive abitudini

Fumo, eccessivo consumo di caffeina e alcol. Alcolici, caffè e sigarette possono interferire con il funzionamento del sistema digestivo e causare problemi come ulcere gastriche e bruciore di stomaco.

  1. Fare regolarmente esercizio fisico

L’esercizio fisico regolare aiuta a mantenere gli alimenti in movimento attraverso il sistema digestivo, permettendo di ridurre la stitichezza. L’esercizio fisico può anche aiutarti a mantenere un peso sano, il che fa bene alla salute dell’apparato digerente.

  1. Gestire lo stress

Troppo stress o ansia può causare seri problemi all’apparato digerente. E’ necessario trovare il modo di ridurre lo stress magari incanalandolo in un’attività sportiva.

Ciò che mangiamo e la qualità della nostra salute digestiva sono strettamente collegati. Seguire questi 10 consigli contribuirà a far sì che sia sempre una relazione felice.

Trovate qui l’articolo completo del biologo nutrizionista Giuseppe Scopelliti.

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Fringe benefit, raddoppia l’esenzione fiscale: le novità 2020

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Nuovo tetteo esenzione fringe benefits: scegli Cadhoc

Le novità in merito alla tassazione dei fringe benefit rientrano nel pacchetto di misure fiscali del decreto approvato dal Consiglio dei Ministri in data 8 agosto 2020 che modifica quanto previsto dall’articolo 51, comma 3 del TUIR, portando la soglia di esenzione fiscale per i fringe benefit da 258,23 euro a 516,46 euro.

Entro tale limite, il valore di beni ceduti e servizi erogati dalle imprese ai propri lavoratori dipendenti non concorrerà alla formazione del reddito, e sarà quindi esente da imposte e contributi.

Il raddoppio dell’esenzione fiscale è però limitato all’anno d’imposta in corso, e quindi si applica esclusivamente per i fringe benefit riconosciuti nel 2020.

Cosa sono i fringe benefits?

I fringe benefits sono beni e servizi erogati dalle aziende ai dipendenti su base volontaria, nell’ambito di politiche di welfare aziendale volte a migliorare la qualità della vita e la produttività dei collaboratori.

fringe benefits sono costituiti sia da strumenti e agevolazioni che migliorano e facilitano la vita lavorativa del dipendente, sia da benefici di cui i collaboratori possono usufruire nella loro sfera privata, durante il tempo libero, per perseguire i propri interessi, e a cui possono avere accesso anche le famiglie.

Perchè riconoscere i fringe benefits al dipendente?

I fringe benefits sono benefici accessori che, in passato, molte aziende vedevano solo come costi aggiuntivi da evitare il più possibile, oppure come vantaggi a cui avevano diritto solo i dipendenti delle grandi aziende.  Il massimo che veniva concesso ai lavoratori era una gratifica in busta paga, più o meno generosa, se il bilancio di quell’anno mostrava un segno positivo.

Oggi, invece, sempre più imprese, anche di medie e piccole dimensioni, sono attente alle esigenze dei propri collaboratori e si sono rese conto del valore aggiunto che comporta la concessione di questo tipo di agevolazioni.

Questo perché ci si è accorti che dei dipendenti appagati e soddisfatti sono più produttivi e rappresentano quindi un vantaggio per l’azienda, che vedrà così aumentare il proprio potenziale.

Riconoscere i fringe benefits al dipendente significa investire nel capitale umano della propria impresa, e questo è importante perché:

  • i dipendenti che si sentono più gratificati e meno stressati sono più produttivi;
  • si crea un rapporto di fiducia più stretto tra l’impresa e i suoi collaboratori;
  • si riduce il turnover;
  • la reputazione aziendale subisce un miglioramento visibile;
  • le persone talentuose in cerca di lavoro vengono invogliate ad entrare a lavorare in azienda.

Inserire i fringe benefits nel proprio piano di welfare aziendale è conveniente per le aziende anche da un punto di vista fiscale, perché ad essi è riservata una tassazione agevolata.

Cadhoc il fringe benefit ideale per azienda e dipendenti

Cos’è Cadhoc? E’ il voucher shopping di Up Day, soluzione perfetta per gratificare il personale, fidelizzare i clienti, premiare la forza vendita.

Un dono sempre indovinato, sia per chi lo fa che per chi lo riceve.

Chi riceve questa tipologia di voucher ha il vantaggio di decidere in che modo spenderlo. Può essere un voucher per fare shopping nelle migliori catene di negozi, oppure può essere convertito in buoni da spendere negli shop e-commerce più cliccati della rete.

Cadhoc nel welfare aziendale

Cadhoc inoltre è la soluzione per i rinnovi contrattuali nazionali di categoria che prevedono flexible benefit obbligatori al loro interno. Il buono spesa per acquistare benzina, libri scolastici, alimentari ecc. che si adatta alle diverse esigenze dei lavoratori. Un esempio? Il contratto Metalmeccanico, Orafi e Argentieri, Telecomunicazioni e Confapi Comunicazione e Servizi Innovativi.

Il buono shopping universale per incentivare e motivare il personale, fidelizzare i clienti e premiare la forza vendita è l’ideale in ogni occasione dell’anno ed è la soluzione per gratificare in modo personale qualunque collaboratore, dal più tradizionalista al nativo digitale grazie alla sua spendibilità on e offline. Tanti vantaggi fiscali alle aziende, perché Cadhoc è l’incentivo che soddisfa davvero i desideri di tutti.

Per avere maggiori info su Cadhoc:

  • Per acquistare i voucher shopping è a disposizione il Numero Verde 800834009 e la mail info@day.it.
  • Per acquistare direttamente Cadhoc l’e-commerce CadhocShop è la soluzione più immediata ed efficace.

Quattro click e l’ordine è già fatto!

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Welfare Voucher: cosa sono e come utilizzarli

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Welfare Voucher: Tutto Quello che c'è da Sapere

I voucher welfare sono lo strumento preferito dalle aziende per erogare benefit ai propri dipendenti. Scopri cosa sono e come funzionano.

Sempre più spesso le aziende che offrono dei benefit aziendali ai propri dipendenti decidono di utilizzare come strumento i welfare voucher: buoni di valore variabile che si utilizzano per usufruire dei beni e dei servizi previsti dal piano di welfare aziendale. In questo articolo troverai tante informazioni utili su come incassare e utilizzare questi buoni.

Cosa sono i voucher welfare?

Il voucher, in generale, è uno strumento in uso da molti anni, in particolare in ambito turistico: si tratta di un titolo di credito che viene impiegato per prenotare o pagare determinati servizi.

Nati in Europa, introdotti in Italia dalla Legge di Bilancio 2016, i voucher welfare sono un utile strumento per le aziende che desiderano rendere più semplice la fruizione dei beni e servizi compresi nel piano di welfare aziendale messi a disposizione dei dipendenti.

Si tratta di buoni cartacei o elettronici considerati come titoli di credito personali (cioè spendibili solo dal titolare), accessori alla retribuzione ordinaria, che danno al lavoratore il diritto di ottenere beni e servizi di vario tipo presso i fornitori convenzionati con l’azienda, e possono essere erogati anche in sostituzione dei premi di produttività.

Secondo quanto stabilito dall’articolo 3 – bis dell’articolo 51 del TUIR (Testo Unico sulle Imposte sul Reddito), l’erogazione di beni e servizi da parte del datore di lavoro può avvenire mediante documenti di legittimazione (i voucher welfare, appunto), in modalità cartacea o elettronica, che riportino il valore nominale.

I voucher welfare, quindi, mantengono le stesse agevolazioni fiscali dei beni e servizi di welfare, perciò non concorrono a formare il reddito da lavoro dipendente e sono esenti da tassazione, almeno fino alla soglia stabilita dalla legge di 258,23 euro. Soglia che, solo per l’anno 2020, con il decreto agosto, è stata innalzata a 516,46 euro *.

In quanto titoli di credito defiscalizzati, secondo quanto stabilito dall’articolo 6 del TUIR, i voucher welfare devono avere le seguenti caratteristiche:

  • devono essere nominativi;
  • possono essere utilizzati solo dal titolare o dai familiari fino al 1° grado di parentela;
  • non possono essere ceduti;
  • non possono essere convertiti in denaro;
  • danno diritto all’erogazione di un solo bene, prestazione, opera o servizio, per il loro intero valore nominale e non possono essere integrati dal titolare (a parte alcune eccezioni).

Sempre la normativa, il comma 2 dell’articolo 6 del TUIR, prevede una deroga all’obbligo di utilizzare il voucher per un solo bene/ prestazione, prevedendo che esso possa essere speso per una pluralità di servizi compresi nel “carrello della spesa” o “paniere” previsto dal piano di welfare aziendale, purché l’importo di tali beni e servizi non superi il limite fissato dalla legge di 258,23 euro.

Differenza tra welfare voucher e buoni pasto

Attenzione, però, a non confondere i voucher welfare con i buoni pasto, che rappresentano un servizio sostitutivo di mensa e sono regolamentati in maniera diversa.

L’erogazione dei voucher welfare non preclude l’uso dei buoni pasto e viceversa, in quanto si tratta di due misure di welfare aziendale completamente diverse.

In particolare, i buoni pasto sono esclusi dalla tassazione sulla base di un importo giornaliero (fissato in 4 euro per i cartacei e in 8 euro per gli elettronici), possono essere utilizzati per acquistare solo cibi già pronti o prodotti alimentari e possono essere integrati con somme di denaro versate dal lavoratore, se la somma spesa supera il valore del buono.

Come si riscuotono i voucher welfare?

Il lavoratore ha a disposizione diversi modi per riscuotere i voucher welfare, che variano in base alle scelte dell’azienda e alla tipologia di buono (se cartaceo o elettronico).

Nel caso in cui un’impresa decida di gestire da sé l’emissione dei voucher welfare, per riscuoterlo il lavoratore dovrà comunicare all’azienda qual è il bene o servizio di welfare aziendale per cui intende spenderlo, scegliendo tra quelli proposti, e sarà poi la stessa impresa a emettere un buono cartaceo o elettronico che il lavoratore potrà spendere per ottenere il servizio scelto.

Se, invece, l’azienda decide di affidare la gestione dei voucher welfare a una società esterna, come Day, il lavoratore potrà accedere alla propria area riservata e scegliere il bene o servizio che preferisce. La società incaricata provvederà all’emissione di un buono spesa cartaceo o elettronico, a seconda delle disposizioni aziendali o delle preferenze del lavoratore, da spendere online o in uno dei negozi convenzionati.

Solitamente, l’utilizzo del voucher deve avvenire entro l’anno d’imposta in cui è stato emesso.

Ecco un esempio per capire meglio il funzionamento dei voucher welfare. Mettiamo il caso che un’azienda decida di erogare al proprio dipendente un bonus di 200 euro annui, spendibile tramite voucher: per ottenere il suo buono, il lavoratore accederà alla piattaforma digitale Day dedicata ai servizi di welfare aziendale, attraverso il sito o l’app e sceglierà il bene o il servizio per cui intende spendere il proprio bonus. Day si occuperà poi di creare il voucher welfare che il titolare potrà spendere presso l’esercizio o gli esercizi convenzionati che erogano i beni o servizi selezionati.

Grazie all’uso di una piattaforma di welfare dedicata, l’azienda non dovrà preoccuparsi di cercare i partner con cui stipulare le convenzioni né gestire le operazioni di emissione dei voucher, mentre il lavoratore potrà scegliere in totale autonomia come spendere il suo voucher e riceverlo in tempi brevi.

Come si possono spendere i voucher welfare?

I voucher welfare danno diritto a ricevere una pluralità di beni e servizi, che vengono scelti dall’azienda al momento della creazione del suo piano di welfare aziendale.

Un piano di welfare aziendale può comprendere agevolazioni che toccano diversi ambiti della vita lavorativa e familiare del dipendente, quali: sanità, assistenza per bambini e anziani, istruzione dei familiari, trasporti, formazione personale del dipendente, previdenza, tempo libero e benessere, shopping.

A seconda dei beni e servizi compresi nel piano di welfare, perciò, il lavoratore può richiedere un voucher welfare da spendere per: viaggi, centri benessere, palestre, abbonamenti a cinema o teatri, acquisto di libri per i figli, corsi di formazione, shopping, abbonamenti ai mezzi pubblici, rette scolastiche.

Perché convengono?

I voucher welfare rappresentano uno strumento utile e conveniente per l’erogazione e la fruizione dei servizi di welfare aziendale.

Specialmente per le aziende di piccole e medie dimensioni, gestire l’erogazione dei beni e dei servizi compresi nel piano di welfare può risultare piuttosto difficile, poiché è inverosimile riuscire, ad esempio, a costruire una palestra o un asilo nido all’interno della struttura. Per questo, risulta più pratico stipulare convenzioni con strutture esterne, che si occuperanno poi di erogare i servizi al dipendente.

Tuttavia, anche stipulando una convenzione, rimane il problema del pagamento dei beni e servizi fruiti dal lavoratore: se, infatti, il datore di lavoro versasse nella busta paga del proprio collaboratore una somma di denaro da spendere presso gli esercizi convenzionati, tale somma verrebbe tassata. Con l’erogazione di un voucher welfare, invece, il lavoratore ha a disposizione l’intera somma e l’azienda gode di numerosi vantaggi fiscali.

Facciamo un esempio concreto. Un’azienda decide di erogare al dipendente 200 euro di bonus, da spendere per acquistare i beni e i servizi che preferisce. Nella tabella, si può vedere la differenza tra l’erogazione dell’importo in busta paga, che viene eroso dalle tasse anche qualora si trattasse del premio di risultato, e l’emissione del voucher welfare, che, invece, è totalmente esente da tassazione.

 

IMPORTO IN BUSTA PAGA PREMIO DI RISULTATO VOUCHER WELFARE
IMPORTO LORDO €200,00 €200,00 €200,00
CONTRIBUTI INPS 9,19% €18,38 €18,38 €0
IMPONIBILE IRPEF €181,62 €181,62 €0
ALIQUOTA CONVENZIONALE IRPEF SENZA DETRAZIONI 27,5% €49,94 €0 €0
ALIQUOTA IRPEF AGEVOLATA 10% €0 €18,16
NETTO IN BUSTA PAGA /IMPORTO WELFARE NETTO DISPONIBILE €131,68 €163,45 €200,00

 

Per quanto riguarda l’azienda, invece, l’emissione dei voucher welfare le garantisce diversi vantaggi fiscali, tra cui l’esenzione dal versamento dell’IVA e la totale deducibilità dei buoni per un importo di 258,23 euro annui a dipendente.

Per fare un esempio concreto, se un’azienda eroga dei voucher del valore di 258 euro a 60 dipendenti, otterrà un risparmio che si aggira attorno ai 1.290 euro all’anno, mentre il dipendente avrà a disposizione l’intero importo.

Vantaggi per il lavoratore e per le aziende

 

Riepilogando, i benefici maggiori del voucher welfare per i dipendenti sono:

  • riduzione del cuneo fiscale;
  • detassazione;
  • maggior potere d’acquisto, derivante dalla non imponibilità del buono;
  • possibilità di ottenere il bene o servizio scelto senza intaccare il proprio stipendio.

Tra i vantaggi del voucher welfare per le aziende ci sono:

  • motivazione e fidelizzazione dei propri collaboratori;
  • esenzione dal versamento IVA;
  • deducibilità al 100% per un importo complessivo annuo di 258,23 euro a dipendente;

facilità di emissione.

*con il nuovo decreto approvato dal Consiglio dei Ministri in data 8 agosto 2020, il limite per la detassazione di beni e servizi riconosciuti ai lavoratori dipendenti passa a 516,46 euro. Il raddoppio dell’esenzione fiscale sul welfare aziendale è però limitato all’anno d’imposta in corso, e quindi si applica esclusivamente al 2020

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Consigli pratici per cuocere le verdure al vapore

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Come cuocere le verdure al vapore

Ci sono molti modi per cucinare le verdure in modo saporito, ad esempio grigliate o saltate in padella. Ma quando siamo di fretta niente batte la cottura al vapore! Questo metodo di cottura è deliziosamente semplice, incredibilmente rapido e particolarmente gustoso poiché mette in risalto il sapore vero delle nostre verdure preferite. Inoltre con la cottura al vapore si preservano più sostanze nutritive rispetto ad altri metodi di cottura. Se non hai mai cucinato le verdure al vapore è tempo di padroneggiare questa tecnica.

Cottura a vapore sui fornelli:

  • Aggiungi 3 dita d’acqua in una pentola grande e porta ad ebollizione su fiamma alta.
  • Prepara gli ortaggi per la cottura. Dopo averli lavati accuratamente, tagliali in pezzi uguali per garantire una cottura uniforme.
  • Posiziona il cesto per il vapore (uno strumento appositamente progettato che si inserisce all’interno di una pentola e tiene cibo appena sopra la superficie dell’acqua) sulla pentola con l’acqua.
  • Metti le verdure tagliate nel cesto e coprile col coperchio.
  • Fai cuocere le verdure fino a quando non raggiungono la consistenza desiderata. La maggior parte delle verdure richiede solitamente solo da 1 a 2 minuti di vapore poiché il vapore è più caldo dell’acqua bollente. Se le verdure ti piacciono tenere, cuocile un po’ più a lungo. Se invece preferisci le verdure più croccanti, cuocile per periodi più brevi. Fai attenzione a non farle cuocere troppo a lungo altrimenti si ridurranno ad una poltiglia.
  • Togli le verdure dal fuoco e rimuovi con cautela il coperchio (ricorda, il vapore può bruciarti la mano!) e servile immediatamente.

Cuocere a vapore nel Microonde:

  • Prepara gli ortaggi per la cottura. Dopo averle lavate accuratamente, taglia le verdure in pezzi uguali per garantire una cottura uniforme.
  • Posiziona le verdure in una grande ciotola per microonde (ad esempio una ciotola di vetro) oppure un cestello per cuocere al vapore al microonde. 
  • Aggiungi tanta acqua quanto basta per coprire le verdure (dovrebbero bastare due o tre dita)
  • Copri la ciotola con della pellicola per microonde e lascia aperto un angolo per far sfogare il vapore.
  • Accendi il microonde a potenza massima per 4-8 minuti (a seconda dello spessore delle verdure) o fino a quando gli ortaggi raggiungono la consistenza desiderata.

Puoi trovare l’articolo originale qui scritto dal dott. Giuseppe Scopelliti Biologo Nutrizionista per maggiori informazioni o richiesta di contatti scrivi a info@day.it.

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I succhi di frutta sono un alimento sano?

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I succhi di frutta sono un alimento sano?

Quella dei succhi, spremute, estratti e centrifugati è una moda che fatica a passare. Esistono locali specializzati in succhi e un sacco di gente ne beve bicchieri su bicchieri tutti i giorni. Non c’è dubbio che siano onnipresenti ma sono davvero salutari come si pensa?

Il succo può aiutarti a consumare più vitamine e minerali e questo è positivo per le persone che hanno difficoltà a mangiare abbastanza frutta e verdura. La realtà è che potrebbe non meritare la sua fama di prodotto salutare. In un articolo pubblicato lo scorso inverno sul Journal of the American College of Cardiology, i ricercatori hanno esaminato diversi alimenti ipocalorici, compresi i succhi, e hanno concluso che mangiare il cibo intero è preferibile alla controparte liquida.

Ecco cosa devi sapere prima di iniziare a sorseggiare il tuo centrifugato

Al succo manca una componente importante

Se da un lato il succo (fresco e prodotto sul momento) contiene le vitamine e i minerali presenti nei prodotti freschi, dall’altro è privo della stragrande maggioranza delle fibre alimentari, le parti della pianta che il corpo non riesce a digerire. Solo perché il tuo corpo non assorbe le fibre, tuttavia, non significa che non le utilizzi.

Le fibre si muovono attraverso il tratto gastrointestinale per aiutare a regolare la digestione e rendono sazi per tempi più lunghi. Seguire una dieta ricca di fibre ha anche dimostrato di ridurre il rischio di diabete, malattie cardiache e obesità.

E senza la fibra il succo non sazia. Diverse ricerche hanno dimostrato che bere i nutrienti è meno soddisfacente che mangiarli.

La maggior parte del succo è zucchero puro

La maggior parte dei prodotti naturali contiene zucchero e la frutta, in genere, ne contiene molto più delle verdure. Se togliamo le fibre dall’equazione, il succo è essenzialmente un mix di acqua e zucchero con qualche vitamina.

Il nostro organismo non distingue lo zucchero che proviene da un frutto o da un vegetale rispetto a quello da una caramella. In altre parole, quando si mangia una banana, la fibra del frutto aiuta a rallentare l’assorbimento dei suoi zuccheri prevenendo picchi di glucosio nel sangue. Quando si beve succo d’arancia, d’altra parte, l’assorbimento dello zucchero è immediato, portando a picchi di insulina e all’inevitabile ipoglicemia reattiva. Nel breve termine questo significa che i livelli di energia oscilleranno, a lungo termine invece i picchi di insulina possono contribuire all’aumento di peso, al diabete di tipo 2 e ad altri problemi.

Inoltre è molto più facile esagerare con lo zucchero quando si beve un succo rispetto a mangiare il cibo intero. Un bicchiere di spremuta d’arancia può arrivare a contenere anche 3 arance, una quantità che difficilmente verrebbe mangiata tutta in una volta.

Optare per il succo verde, cioè un succo ricavato interamente o principalmente dalle verdure, è una scelta più intelligente e sana perché le verdure sono in genere meno zuccherate e caloriche della frutta.

Bere succhi potrebbe portare all’aumento del peso

Quando ingerisci dello zucchero, il corpo si aspetta anche della sostanza per saziarsi. Quando bevi un succo zuccherino senza consumare alcuna fibra per stimolare la sazietà, rischi di avere delle crisi di fame che potenzialmente portano ad abbuffate.

I frullati possono essere un’alternativa migliore

I frullati non sono affatto un cibo perfetto. È facile esagerare con la frutta ma dal momento che tipicamente vengono fatti con frutta o verdura intere, almeno mantengono le fibre nell’equazione.

In definitiva

I succhi, estratti, spremute e centrifugati potrebbero non essere così salutari come si pensa. Ma come tutte le cose quando si parla di dieta sana ed equilibrata, non è obbligatorio rinunciarvi del tutto. Basta mantenere le porzioni moderate, usare anche un sacco di verdure a basso contenuto di zucchero nel mix e mangiare alcuni cibi ricchi di fibre insieme alla bevanda. Forse, soprattutto, evitare la trappola comune di pensare al succo come un qualcosa a zero calorie e a tutta salute. È uno spuntino non cibo gratis.

Puoi trovare l’articolo originale qui scritto dal dott. Giuseppe Scopelliti Biologo Nutrizionista per maggiori informazioni o richiesta di contatti scrivi a info@day.it.

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Differenza tra fringe e flexible benefits

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Differenza tra fringe e flexible benefits

I benefit aziendali quali i fringe e i flexible benefit permettono di migliorare la qualità della vita dei propri dipendenti. Ecco tutto quello che devi sapere su questo tipo di agevolazioni e le loro differenze.

Cosa sono i benefit aziendali?

I dipendenti sono la risorsa principale di un’azienda. Sono sempre di più le aziende che lo riconoscono e che si impegnano per rendere più facile e serena la vita dei propri collaboratori.

Un lavoratore che si sente considerato e valorizzato, infatti, è più felice, produttivo e fedele all’azienda. L’azienda, in conseguenza di ciò, otterrà diversi vantaggi, come l’aumento della propria produttività, della competitività e dell’efficienza.

Secondo numerosi sondaggi effettuati tra i lavoratori del settore privato, molti di loro preferiscono ricevere benefit aziendali piuttosto che aumenti di denaro in busta paga.

I benefit aziendali sono quell’insieme di beni, servizi e agevolazioni di vario tipo che il datore di lavoro mette a disposizione dei propri dipendenti per migliorare la qualità della vita dei lavoratori e favorire la conciliazione vita-lavoro.

Tali benefit rappresentano a tutti gli effetti un compenso di natura non monetaria che viene erogato dall’azienda al dipendente e rientrano a pieno titolo nelle misure di welfare aziendale. Questo perché è proprio attraverso l’erogazione di questi bonus che si esplicita una parte consistente di molti piani di welfare.

I benefit aziendali si dividono in due categorie:

  • i fringe benefits;
  • i flexible benefits.

Fringe benefits

Fringe benefits è un termine di origine inglese che si può tradurre in italiano con le parole “benefici accessori”.
Si usa per indicare tutta una serie di benefici in natura che le aziende concedono ai propri dipendenti nell’attuazione delle sempre più diffuse e articolate politiche di welfare aziendale.

Tali vantaggi comprendono beni e servizi di vario genere, che possono essere erogati a tutti i dipendenti oppure a specifiche categorie di lavoratori.

I fringe benefits sono costituiti sia da strumenti e agevolazioni che migliorano e facilitano la vita lavorativa del dipendente, sia da benefici di cui i collaboratori possono usufruire nella loro sfera privata, durante il tempo libero, per perseguire i propri interessi, e a cui possono avere accesso anche le famiglie.

Tra i fringe benefits più apprezzati e diffusi tra i dipendenti delle aziende italiane ci sono:

  • servizio di mensa aziendale;
  • buoni pasto e buoni regalo;
  • auto aziendale;
  • telefono cellulare, computer e tablet aziendali;
  • borse di studio per incentivare l’accesso all’istruzione dei figli dei dipendenti;
  • corsi di aggiornamento professionale;
  • case in locazione;
  • prestiti agevolati;
  • sconti e convenzioni con negozi, palestre, centri benessere, ecc.;
  • polizze di previdenza complementare;
  • rimborsi per spese sostenute dal dipendente;
  • stock options.

 

Flexible benefits

Sono sempre di più le aziende attente al benessere dei propri dipendenti che decidono di attuare dei piani di welfare aziendale per migliorare il cosiddetto “work-life balance”.

I flexible benefits sono uno dei punti cardine di questi piani di welfare aziendale. Si tratta, infatti, di un ventaglio piuttosto ampio di beni e servizi che i datori di lavoro mettono a disposizione dei propri dipendenti.

Oltre a migliorare e rendere più serena la vita dei lavoratori che possono usufruirne, i flexible benefits hanno anche il vantaggio di ridurre il cuneo fiscale, in quanto sono totalmente esclusi dall’imposizione di carichi contributivi e retributivi. Proprio tale vantaggio fa sì che molte persone scelgano di convertire in flexible benefits il proprio premio di risultato.

Perché un lavoratore dipendente abbia diritto a ricevere queste agevolazioni, l’erogazione dei benefit deve essere prevista dal CCNL di riferimento, oppure essere frutto di un accordo stipulato con le rappresentanze sindacali. A volte, sono le stesse imprese a prendere l’iniziativa di predisporre dei piani di welfare che comprendono anche i flexible benefits.

 

Esempi di flexible benefits

La categoria dei flexible benefits comprende un ventaglio piuttosto ampio di beni e servizi, che le aziende mettono a disposizione dei propri dipendenti per migliorare l’equilibrio vita-lavoro.

Tra i flexible benefits più diffusi ci sono:

  • servizi complementari di assistenza sanitaria;
  • servizio di mensa aziendale;
  • piani di previdenza complementare;
  • servizi dei settori benessere, cultura e salute (palestre, cinema e teatri);
  • buoni per lo shopping e buoni carburante;
  • corsi di lingua;
  • rimborso delle spese sostenute per l’acquisto di abbonamenti ai servizi di trasporto pubblico locale;
  • somme o rimborsi erogati per l’accesso ai servizi di istruzione (anche asili nido e scuole materne) da parte dei familiari dei dipendenti, compreso il servizio di mensa e i servizi extrascolastici, come centri estivi e invernali;
  • borse di studio per i familiari;
  • somme o prestazioni erogati per l’accesso ai servizi di cura e assistenza agli anziani o ai familiari non autosufficienti;
  • servizi di babysitteraggio.

Differenza tra fringe benefits e flexible benefits

È importante conoscere la distinzione tra fringe benefits e flexible benefits perché la loro natura rende differente il tipo di trattamento economico a cui sono sottoposti.

I fringe benefits sono compensi in natura erogati dalle aziende ai propri dipendenti e vengono considerati come una parte di retribuzione aggiuntiva rispetto a quella ordinaria, pertanto sono soggetti a tassazione agevolata solo in parte.

I flexible benefits, invece, sono considerati complementari alla retribuzione ordinaria e, per questo, sono esonerati totalmente dal pagamento di contributi e imposte sul reddito da parte del lavoratore.

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Come misurare il grasso corporeo

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Misurare il grasso corporeo

Scopri come viene misurata la percentuale di massa grassa e qual è la percentuale di grasso corporeo da considerarsi eccessiva e quindi potenzialmente dannosa per la tua salute.

Misurare il grasso corporeo

Molte persone che tengono il proprio peso sotto controllo o che cercano di perdere qualche chilo per farlo utilizzano la bilancia. Ma il peso da solo come unico indicatore della nostra forma fisica non è un valore sufficiente.

Un indice importante da considerare è la percentuale di grasso corporeo.

Quando la maggior parte di noi sente le parole “grasso corporeo” pensa subito ad un’accezione negativa. Tuttavia, nella giusta proporzione, il grasso è in realtà fondamentale per la nostra dieta e la nostra salute. In un passato non troppo lontano, la capacità di immagazzinare massa grassa in eccesso ha permesso ai nostri antenati di sopravvivere in tempi di carestia, quando il cibo era difficile da trovare.

Ancora oggi è essenziale per il corretto funzionamento del nostro organismo, per conservare il calore corporeo e per proteggere gli organi da un trauma.

I problemi sorgono quando iniziamo ad accumularne troppo. Questo può portare a tutta una serie di problemi di salute tra cui colesterolo alto, ipertensione, intolleranza al glucosio e insulino resistenza.

La percentuale di massa grassa normale per gli uomini è compresa tra circa l’8 e il 15 per cento del loro peso corporeo totale e per le donne tra circa il 20 e il 30 per cento.

Grasso corporeo: come può essere misurato?

Ci sono una varietà di modi per misurare la quantità di grasso corporeo.

Una metodologia piuttosto accurata (a patto di utilizzare apparecchiature mediche professionali dal costo di migliaia di euro) è l’analisi bioimpedenziometrica (BIA).

La BIA viene effettuata facendo sdraiare il paziente e posizionando degli elettrodi sulla mano e sul piede, mentre una corrente (assolutamente impercettibile) viene fatta passare attraverso il corpo. Il grasso ha meno acqua ed è più resistente alla corrente rispetto ai muscoli che contengono più acqua. Questo permette di stimare in modo preciso la composizione corporea, nonché tanti altri parametri come il metabolismo basale.

Il metodo più semplice è misurare la circonferenza della vita e determinare l’indice di massa corporea (BMI). Una circonferenza della vita maggiore di 87cm per le donne e 100cm per gli uomini è associata ad un rischio serio per la salute. Ma già valori superiori a 94cm per l’uomo e 80cm per la donna sono da considerarsi a rischio.

Per calcolare l’indice di massa corporea occorre dividere il peso in Kg per il quadrato dell’altezza espressa in metri. Se il risultato finale è inferiore a 18 l’individuo è sottopeso, tra 18 e 24,9 è normopeso, tra 25 e 29,9 è in sovrappeso e oltre 30 è obeso.

Tuttavia è necessario essere consapevoli che il BMI non è un indice del grasso corporeo e preso come valore a se stante non da vere informazioni sulla salute (ad esempio un culturista avrà un BMI di un paziente obeso pur avendo una percentuale di massa grassa bassissima).

Un altro modo per determinare il grasso corporeo è la plicometria. Utilizzando una speciale pinza graduata (il plicometro) si misura lo spessore della pelle in punti specifici del corpo (che è determinato dalla quantità di grasso sottocutaneo) e attraverso delle formule si ottiene il grasso totale. Tuttavia non solo è facile fare errori ma questo metodo non misura direttamente il grasso viscerale o il grasso del seno.

In definitiva la percentuale di grasso corporeo è solo un altro numero nell’equazione della salute. E se non siete soddisfatti del risultato fai da te tutto quello che serve è rivolgersi ad un professionista della nutrizione.

Puoi trovare l’articolo originale qui scritto dal dott. Giuseppe Scopelliti Biologo Nutrizionista per maggiori informazioni o richiesta di contatti scrivi a info@day.it.

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DayMobile Pos, l’app che accetta ogni tipo di buono pasto Day

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DayMobile Pos la App che accetta ogni buono pasto

Up Day presenta DayMobile Pos, l’App per gli esercenti affiliati che consente di leggere e validare in pochi e immediati passaggi ogni tipo di buono pasto Day – cartacei, digitali, con Bar Code e QR Code – in tempo reale, e che supera il concetto di Pos unico recentemente introdotto, portando con sé forte spinta al digitale ed evoluzione per il comparto.

Un supporto economico per la rete dei partner

Disponibile a breve in maniera gratuita in versione Android o iOs, DayMobile Pos  è una soluzione “leggera” alternativa ad altre proposte più strutturate o integrate a infrastrutture di sistemi di cassa già presenti, rappresentando dunque anche un supporto economico per il rilancio della rete dei partner provati dalla pandemia.

Una App semplice, flessibile e sostenibile

Destinata a tutti gli affiliati che ritirano i buoni pasto Day, l’applicazione DayMObile POS permette la validazione e l’accettazione dei buoni pasto sia cartacei che elettronici in tempo reale.

Il ritiro dei buoni pasto diventa più leggero, poiché non richiede alcuna infrastruttura particolare, se non una app, scaricabile gratuitamente su qualsiasi tipo di smartphone apple o android.

Diventa semplice e veloce poiché i buoni letti sono direttamente fatturabili dalla app.

Diventa più flessibile perché permette l’accettazione dei buoni anche per i pagamenti da remoto, al tavolo o in consegna tramite un fattorino.

Diventa sostenibile poiché non vi è l’emissione di uno scontrino termico, ma la transazione è registrata e visualizzabile sia dalla app dell’esercente, che dalla app dell’utilizzatore. La transazione viene notificata all’esercente anche tramite SMS o mail, secondo le preferenze e i dati impostati sul proprio profilo.

Sicurezza dei dati

E’ inoltre una app sicura poiché ogni operazione è validata in tempo reale tramite web service Day e quindi garantita al massimo per il trattamento dei dati.

Up Day supera il POS unico 

“In questi ultimi tempi si è parlato molto dell’introduzione del Pos unico per l’accettazione da parte degli esercenti dei buoni pasto ma noi, che già da tempo incentiviamo la diffusione di sistemi innovativi efficienti, siamo andati oltre orientandoci verso soluzioni più digitali e tecnologiche come l’App DayMobile Pos. Entro fine 2021, prevediamo infatti di realizzare oltre l’80% delle transazioni tramite questo supporto.” afferma Mariacristina Bertolini, Direttore Generale e Vicepresidente di Up Day.

 

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Alcalinizzare il corpo. E’ davvero necessario?

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Alcalinizzare il corpo

Spesso su Internet leggiamo che l’eccesso di acidità è la causa principale di ogni malattia e che per combatterla dobbiamo gestire il nostro apporto di alimenti alcalinizzanti. In questo articolo il dottor Giuseppe Scopelliti, biologo nutrizionista, ci chiarisce le idee.

Facciamo chiarezza

L’acidità e l’alcalinità sono misurate usando la scala del pH che va da 0 a 14. 0 è altamente acido, 7 è neutro e 14 è altamente alcalino, anche detto “basico“. La scala del pH è anche logaritmica, il che significa ad esempio che un pH di 3 è 10 volte più acido di un pH di 4, e un pH di 8 è dieci volte più alcalino/basico di un pH di 7.

Il mito che abbiamo bisogno di “alcalinizzare” i nostri corpi si basa su una sbagliata interpretazione della fisiologia umana.

Cosa alcalinizzare?

La domanda che pongo sempre ai miei pazienti presi da questo mito è: “Quale compartimento del corpo pensi che dovresti alcalinizzare?

Sicuramente non lo stomaco che funziona correttamente a un pH acido di circa 2, passando a 4 o 5 dopo un pasto. Se lo stomaco diventa meno acido digeriamo male e, ad esempio, assorbiamo meno ferro (Jacobs & Miles, 1969).

Neanche l’intestino. L’acidità dell’intestino tenue e crasso (eccetto l’ultima parte dell’intestino tenue, che ha un pH lievemente alcalino di 7,4) viene attentamente mantenuta da varie secrezioni digestive e anche dai microbi intestinali benefici che producono acido lattico, acidi grassi a catena corta e altre sostanze chimiche acidificanti dai cibi che mangiamo. Questo ambiente acido impedisce in maniera attiva la proliferazione di organismi patogeni (cioè che causano malattie) (Fallingborg, 1999). Tradotto: l’ambiente acido ci protegge dalle infezioni.

Possiamo concludere dicendo che “alcalinizzare il tuo corpo” non è necessariamente una buona idea!

E per tante altre malattie?

Ci sono delle reazioni chimiche essenziali per la nostra sopravvivenza che si verificano in continuazione nel nostro sangue e che possono avvenire solo in una gamma ristretta di livelli di pH.

Mantenere il giusto livello di pH nel sangue è così importante per la nostra sopravvivenza che se scende al di sotto di 7,35 o sale sopra i 7,45, il corpo attiva numerosi meccanismi tampone che coinvolgono proteine ​​del sangue, fosfato, bicarbonato ma anche polmoni e reni, per ristabilire l’equilibrio.

Qualsiasi cosa che riesca a superare questi meccanismi di protezione e che quindi renda il sangue troppo acido (inferiore a 7) o troppo alcalino (superiore a 7.7) porterebbe far ci avere conseguenze irreversibili.

In conclusione

Il messaggio da portare a casa è che ogni compartimento del corpo ha un intervallo di pH che è necessario per il suo corretto funzionamento e che viene attentamente mantenuto da una serie di potenti meccanismi. Semplicemente non puoi “alcalinizzare il tuo corpo”, né dovresti sforzarti di farlo.

Tuttavia, puoi rendere più facile per il tuo corpo mantenere le diverse gamme di pH ottimali facendo scelte alimentari e di vita sane. Ad esempio seguendo una dieta ricca di fibre e amido resistente con verdure, frutta, legumi e cereali integrali, fornirai al tuo microbiota intestinale (l’insieme dei microorganismi che popolano il tuo intestino) i nutrienti necessari per produrre acidi grassi a catena corta che aiutano a mantenere un pH ottimale nel colon.

Ma non pensare di stare “alcalinizzando” il tuo corpo. Stai semplicemente aiutando quei meccanismi di protezione che altrimenti dovrebbero lavorare di più per mantenere il pH ottimale. E questo ha notevoli benefici per la salute, incluso un ridotto rischio di sviluppare malattie renali (Mirmiran, Yuzbashian e Bahadoran, 2016).

Quindi portare a tavola frutta e verdura fa bene alla salute sia fisica che mentale ma non necessariamente c’è bisogno di alcalinizzare il nostro corpo.

Il corpo manterrà infatti tutti i suoi sistemi a livelli di pH ottimali automaticamente ( e autonomamente ).

Puoi trovare l’articolo originale qui scritto dal dott. Giuseppe Scopelliti Biologo Nutrizionista per maggiori informazioni o richiesta di contatti scrivi a info@day.it.

 

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Fare rete con Spazio Connessione, powered by Up Day

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Fare rete con Spazio Connessione

Up Day da 30 anni lavora assieme ai clienti per costruire sistemi di gestione e motivazione dei dipendenti. Porta il benessere all’interno delle aziende attraverso i buoni pasto, i buoni acquisto e i piani di welfare aziendale: tante soluzioni a favore dei dipendenti e delle loro famiglie.

Ed è proprio grazie a questo ed alla sua esperienza che ha scelto di dare vita ad un progetto che riuscisse a promuovere il territorio e le relazioni.

Uno spazio virtuale tra professionisti e imprenditori

Spazio Connessione è uno spazio virtuale (al momento) nato per creare sinergia tra le aziende, in cui professionisti e imprenditori si confrontano, si conoscono e collaborano attivamente per generare fiducia, non solo nelle persone che partecipano ma anche nel brand che li rappresenta.

SpazioConnessione genera opportunità e costruisce un modello basato sulla collaborazione, sull’ascolto, sullo scambio di opinioni per fare rete.

Un modo quindi per fare business insieme: incontri online e in presenza, scambio di referenze, approfondimenti, competenze, network e territorio. SpazioConnessione è un asset per la strategia di un’azienda, un vero e proprio strumento di business basato sul referral marketing.

Fiducia e scambio reciproco alla base delle relazioni

Gli SpazioConnessione sono appuntamenti della durata di 1 ora che permettono di continuare a comunicare e rimanere vicini alle aziende con positività. Un momento per raccontare iniziative, progetti nati con e per le aziende, per ripartire insieme più forti e solidali di prima.

Collaborazione, coesione, competenza e creatività gli asset principali di questo progetto.

I numeri di Spazio Connessione

15 sono le aziende attive e in presenza durante ogni incontro, 2 sono gli Spazio Connessione online e 2 in presenza non appena sarà nuovamente possibile e soprattutto zero costi di partecipazione.

Sul sito spazioconnessione.it nella sezione calendario sono presenti tutte le date degli incontri passati e futuri.

Il 13 di ottobre saremo in collegamento da Milano e Torino per due nuove tavole rotonde.

Puoi iscriverti e partecipare gratuitamente qui

Up Day, con la sua esperienza vuole promuovere il territorio e le relazioni tra i diversi soggetti che partecipano agli incontri di SpazioConnessione. Un progetto ben gestito, pianificato. strutturato e monitorato può diventare un vero e proprio asset per la strategia di un’azienda.

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Glutine: tra mito e leggenda

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Glutine tra mito e leggenda

Per la Rubrica Pausa Sana il dott. Giuseppe Scopelliti Biologo Nutrizionista ci propone un articolo in cui si parla di glutine.

La moda del gluten free dilaga sempre più, chi sposa questa “filosofia” sostiene che una dieta priva di glutine li aiuti a perdere peso, ad aumentare la loro energia e sentirsi più in salute. Il glutine di per se non è né dannoso né malsano: è semplicemente un complesso principalmente proteico presente in diversi cereali. Eppure moltitudini di persone seguono diete prive di glutine tipicamente evitando pane, pasta e simili. E questo è solo l’inizio. Questo composto è un ingrediente che si trova in una miriade di alimenti industriali. La sua presenza così diffusa può renderne l’eliminazione completa dalla dieta sorprendentemente difficile, scomodo e dispendioso sia in termini di tempo che di denaro.

Il che fa sorgere la grande domanda: questa tendenza così popolare è davvero benefica per la salute o almeno abbastanza per far sì che valga la pena darsi così tanto da fare per seguire una dieta gluten free? Ma ancora più importante: eliminare completamente il glutine è una scelta davvero sana?

Che cos’è il glutine?

In termini semplici il glutine è una sostanza proteica contenuta in alcuni cereali quali granofarroavenasegalespeltaorzokamut e triticale. [approfondisci sui cereali integrali] Funziona come una colla dando a pane e pasta quella consistenza spugnosa e gommosa che ci aspettiamo; aiuta nella lievitazione la pizza e altri impasti ed è utilizzato anche come addensante in salse e zuppe. Quando questi cibi comuni sono preparati senza glutine, è abbastanza facile distinguerne la consistenza e persino il gusto.

Sono intollerante al glutine?

L’intolleranza al glutine comprende uno spettro di reazioni alla sostanza che può variare da una lieve sensibilità fino alla celiachia in piena regola. I sintomi di intolleranza al glutine variano ampiamente. Nei casi più lievi i problemi comuni includono gas, gonfiore e diarrea, tutti sintomi che possono essere scambiati per altre condizioni di salute come intolleranza al lattosio, sindrome dell’intestino irritabile e anche problemi ginecologici.

Ma un’intolleranza al glutine può presentarsi in modi molteplici, persino sorprendenti, che non hanno nulla a che fare con diarrea e problemi intestinali. In particolare alcune persone provano nausea, affaticamento generale o irritazione della pelle; le carenze di ferro e di vitamina D possono anche essere un segno specialmente nelle persone più giovani.

Ma il grosso problema con l’intolleranza al glutine sembra essere quella che viene chiamata “nebbia mentale” in seguito alla quale si fa fatica a rimanere concentrati. La nebbia mentale può essere estremamente frustrante e persino estenuante fisicamente.

Per determinare se si soffre di una sensibilità al glutine serve provare una dieta di eliminazione. Fondamentalmente occorre eliminare completamente il glutine per almeno un mese e valutare lo stato di salute; se i sintomi sono migliorati o spariti è probabile che si sia intolleranti al glutine. Ma per averne conferma occorre reintrodurre lentamente il glutine per vedere se i sintomi ritornano.

In cosa si differenzia la malattia celiaca?

Sebbene possano avere molti sintomi simili, la sensibilità al glutine non celiaca e la malattia celiaca sono molto diverse. La celiachia è in realtà una malattia autoimmune ereditaria. Se si è semplicemente sensibili al glutine ma lo si mangia in ogni caso, probabilmente non ci si sentirà bene ma non si sta seriamente danneggiando il corpo a lungo termine. Tuttavia, quando chi soffre di celiachia consuma cibi contenenti glutine, crea una reazione tossica nel sistema immunitario che infiamma e danneggia il rivestimento dello stomaco e l’intestino tenue. Questo impedisce al cibo di essere assorbito correttamente, il che può causare perdita di peso e malnutrizione involontaria e potenzialmente innescare molti altri problemi. Ad esempio l’incapacità di assorbire il ferro può portare all’anemia e non assorbendo adeguatamente calcio e vitamina D si può avere un deterioramento della massa ossea fino all’osteoporosi.

Come faccio a sapere se sono celiaco?

Se stai riscontrando sintomi sospetti, individua il problema il più rapidamente possibile. Una dieta di eliminazione può essere tutto ciò che serve per rilevare la sensibilità al glutine non celiaca, nel qual caso sarebbe buona cosa fare gli esami per escludere al 100% la malattia celiaca.

Purtroppo, ad oggi, non c’è nessuna cura per la celiachia. L’unico trattamento è quello di seguire religiosamente una dieta priva di glutine. Senza l’afflusso costante di glutine, l’intestino tenue inizia a guarire e la salute generale tende a migliorare.

Miti e leggende del senza glutine

Anche senza una diagnosi di celiachia o una sensibilità consolidata, in molti scelgono di non mangiare glutine. Molti lo fanno nella speranza di curare l’emicrania, la fibromialgia, l’affaticamento cronico e altre malattie anche se la ricerca non ha mai individuato nel glutine la causa questi problemi. Molte persone evitano anche il glutine nella speranza di perdere peso velocemente. Quando il glutine divenne per la prima volta una parola alla moda qualche anno fa, era un malinteso comune che il glutine avesse qualcosa a che fare con l’aumento di peso. Non è vero. Anche se alcuni che seguono una dieta gluten free dimagriscono, la loro perdita di peso è raramente un risultato diretto. Nella maggior parte dei casi ciò che realmente accade è che l’eliminazione del glutine riduce notevolmente la varietà di alimenti che possono mangiare, specialmente i cibi confezionati. Con poche scelte molti si rivolgono a frutta e verdura fresca, proteine ​​magre e latticini a basso contenuto di grassi. Diete ricche di questi alimenti di solito riducono l’apporto calorico totale e indovina cosa? Le persone perdono peso naturalmente ma spesso chi sceglie il senza glutine non perde peso. In realtà molti ingrassano. Complici gli esperti di marketing alimentare che, sfruttando la popolarità della dieta priva di glutine, riempiono gli scaffali dei supermercati con biscotti, torte e snack senza glutine. Senza il glutine i produttori devono usare più grassi e zuccheri per far sì che i loro prodotti, già poco sani, abbiano un buon sapore, aumentando il numero di calorie al di sopra delle loro controparti contenenti glutine. Basta confrontare una singola porzione di uno snack qualsiasi con la sua controparte senza glutine. Spesso la seconda arriva ad avere il 30% di calorie in più rispetto alla versione normale. Quindi spesso chi si lancia in una dieta gluten free fai da te e senza averne veramente motivo, finisce con l’ingrassare e col danneggiare la propria salute.

Trovi qui l’articolo originale.

Per maggiori informazioni scrivi a Day: info@day.it

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